Author: admindiocesi

Pellegrinaggio Diocesano ad Oropa sabato 10 agosto 2024

La Diocesi di Ivrea organizza l’annuale pellegrinaggio al Santuario di Oropa sabato 10 agosto. Il programma prevede:

  • ore 9,00 – 10,00: sacerdoti disponibili per le confessioni
  • ore 10,00: Basilica superiore: S. Messa presieduta dal Vescovo
  • al termine della Messa: processione verso la Basilica antica per la recita dell’Angelus
  • ore 15,30: Basilica superiore: recita del S. Rosario e Benedizione Eucaristica.

Per le prenotazioni del pullman rivolgersi presso la propria Parrocchia.

La Pastorale Giovanile Diocesana organizza il pellegrinaggio a piedi che inizierà venerdì 9 agosto alle ore 23.00. Preghiera presso la Chiesa parrocchiale di Andrate e partenza del pellegrinaggio. Il luogo di partenza dovrà essere raggiunto con mezzi propri.


Intervista “Risveglio” 31.08.2017

-La pubblicazione degli asterischi scritti in questi anni per il nostro giornale significa che intende chiudere una parentesi?
Direi proprio di no. Mi pare ancora valida la motivazione con cui ho iniziato questa forma di colloquio. E quindi, a Dio piacendo, vorrei continuare.Sono consapevole che si tratta di piccola cosa: il titolo della rubrica –“Asterischi” –lo dice. La pubblicazione della raccolta è iniziativa di amici che vivono in vari posti, in Italiae persino altrove. Posso dire anche di più di quanto ho scritto nella Presentazione: chi me lo ha sugge-rito–sono amici, di qui la loro amabilità mi ha detto: “Eravamo abituati ad avere con una certa frequenza qualche tua pubblicazione, ma da quando sei vescovo ci hai tolto l’abitudine”.Ho risposto che ho meno tempo di prima, benché la mia vita nella Congregazione dell’Oratorio non sia stato affatto un “otium” letterario… Allora è venuto il suggerimento: “Ci è capitato di leggere qualcuno degli asterischi. Perché non ne fai una raccolta?”.Ho detto di sì. Posso anche aggiungere che uno degli amici, dopo aver lettola bozza, ha osservato: “Edoardo, da quarant’anni, da quando ti conosco, dicile stesse cose…”. L’ho preso come un complimento. Sulle cose importanti c’è una “stabilitas” che assomiglia più all’“antico” che al “vecchio”…

-Asterisco. Perché ha scelto questa forma di colloquio?
Primo, perché consente una “brevitas” che ad altre forme di colloquio non si addice. Qualcuno osserva che sono “lungo”nelle omelie.Forse è vero, ma non è così negli scritti:addirittura nelle Lettere pastorali… Ammiro l’ampiezza di quelle di tanti miei confratelli nel Collegio Apostolico: veri libri, in molti casi; ma lamia esperienza di quand’ero fuori dal“Collegio” –cioè fino a cinque ani fa –è che non sempre si giunge alla fine del testo, a meno che non si tratti di Pastori che dicono cose così avvincenti da inchiodarti per ore alla lettura…Se una lettera è breve, c’è speranza che almeno la si legga fino a metà…Secondo, perché questa forma consente di affrontare argomenti “attuali”, nel senso che si tratta di cose, fatti, suggestioni che accadono nel momento in cui gli “asterischi” compaiono… E infatti la data della pubblicazione è, quasi sempre, elemento integrante di ognuno…Terzo, perché credo nel valore del nostro giornale. Avrei potuto “postare”queste riflessioni soltanto sul sito della diocesi, ma credo nel valore del nostro giornale!

-Mare vasto e infinito, navigazione…
Perché ha scelto questi titoli per la raccolta di riflessioni lanciate ad un territorio come il Canavese?Geograficamente parlando non penso siano i più azzeccati, ma io –di indiscussa origine piemontese–ho sempre provato il fascino del mare. E quando ho incominciato –presto, grazie a Dio –a cercare di approfondire un poco le radici della fede cristiana, guardando a Gesù Cristo, ho scoperto con immenso piacere come anche Lui, di indubbia origine non marinara, ha provato il fascino del mare, sia pure del piccolo “Mar di Galilea”che, per la gente di quei luoghi, era, comunque, “il mare”.

In uno degli asterischi ho scritto: “L’ho sempre amato, il mare, per la sua bellezza, la forza, l’incessante movi-mento, la varietà dei colori, l’infinito che evoca con la sua vastità, il mistero che le profondità dei suoi fondali richiamano; amato, inoltre, anche per una lezione che, insieme a tante altre, da esso col-go: se per terra l’andare senza meta può essere, in alcuni casi, persino misura ed espressione di libertà, per mare questo non è consentito: senza rotta, senza la tensione verso il por-to, c’è solo deriva, naufragio. Mi ha sempre colpito che i principali degli apostoli di Cristo fossero pescatori, sia pur nel piccolo Mar di Galilea”…Mi sento in sintonia con pensieri come questi: “Sapete di qua-le amore io amo? Io amo come il mare ama la riva: dolcemente e furiosamente!” (F.De Roberto).“Si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo. Le nostre reti sono una domanda. La risposta non dipende da noi”(E. De Luca).“Vedere le onde e avere la certezza che sono state offerte da qualcosa di eterno che tende la mano fino a noi per dirci: Ho bucato il muro del nulla per venire fino da te” (F. Caramagna).

-Allora, Eccellenza, buona navigazione e buona pesca! Con san Filippo nel cuore?

Grazie! Sì, con san Filippo nel cuore! Credo che nessuno si senta defraudato di qualcosa quando un uomo porta nel cuore suo padre!

(da “Il Risveglio popolare”, 31-08-2017)

Asterischi – 5 dicembre 2019

Un nuovo libro di don Giovanni Zaccaria – La Messa spiegata ai ragazzi (e non solo a loro), Ed. Ares – ha il pregio di “raccontare” con un linguaggio semplice la Santa Messa, e di sottolineare lo stretto legame tra la liturgia e la vita personale del cristiano. Traggo da una intervista all’autore qualche spunto di riflessione per il cammino di questo anno pastorale che abbiamo dedicato alla “convocazione”: Eucaristia: convocati alla presenza del Signore.:

«A Messa ci andiamo perché “convocati”: che cosa significa?

Io penso che tutti abbiamo come la sensazione che, quando andiamo a Messa, siamo noi a decidere. Pensiamo: sono io che decido quando vado a Messa, in quale chiesa, con quale sacerdote, con quali amici etc… Questo è anche vero, ma solo in parte. Noi, infatti, cresciamo con l’idea che la vita cristiana sia quello che io faccio per Dio e, siccome io sono buono, allora scelgo di riservare un po’ del mio tempo a Lui. Ebbene, la realtà è esattamente il contrario: tutto quello che di buono facciamo nella nostra vita, è una risposta ad una chiamata di Dio, che viene sempre prima di noi. Ecco perché si dice che alla Messa noi siamo convocati: perché non sono io, ma è Dio che per primo mi chiama. È lo Spirito Santo che mi viene a cercare perché vuole stare con me. Nella Messa è Dio stesso che cambia le regole dello spazio e del tempo, pur di stare con me. È chiaro poi, che a questa convocazione, io posso rispondere “Sì” o “No”, perché Dio non ci toglie mai la libertà, altrimenti non ci sarebbe l’amore. D’altra parte, però, Lui non si stanca mai di chiamarci e di venirci incontro per primo».

«Spiegando il momento dell’Offertorio, lei fa capire una cosa fondamentale: la Messa è un avvenimento che c’entra concretamente e personalmente con la vita di ognuno di noi.

È molto importante, nella Messa, stare attenti a quello che dice il sacerdote quando offre il pane e il vino: “Benedetto sei Tu Signore, Dio dell’Universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Li presentiamo a te perché diventino il Corpo e il Sangue di Cristo”. Questa preghiera significa che non c’è Eucaristia, se non ci sono grano e vite ma, soprattutto, se non c’è il lavoro dell’uomo che trasforma quel grano e quella vite in pane e vino. In altre parole: non c’è Eucaristia se non c’è il lavoro dell’uomo. Attenzione però, non stiamo parlando di un lavoro generico, ma proprio del tuo, personale, lavoro! Che sia fare un letto o progettare un aereo, giocare a calcio o studiare etc… tutta la tua vita, tutto quello che fai, tutto quello che ti esalta e tutto quello che ti deprime, tutta la tua esistenza entra perfettamente in questa preghiera dell’Offertorio. Non solo: attraverso il sacerdote, tutto questo passa dalle tue povere mani, direttamente alle mani di Dio. Come cambia allora la nostra vita! Sapere che tutto quello che fai, tutto quello che vivi, ogni emozione che provi, puoi viverla insieme a Dio, puoi offrirla a Lui e condividerla con Lui… Non c’è più nulla nella vita che resti privo di senso! Capire questo è fondamentale perché ci fa entrare in un’altra dimensione: quando vai a Messa non sei più solo uno spettatore, che assiste ad un evento da fuori, come se fosse ad un teatro o ad un convegno. La Messa è tua, esattamente quanto lo è del sacerdote! Ovviamente ciascuno ha il proprio posto. Ma il solo fatto che tu sia lì presente, che offri la tua esistenza, innestato nel Sacrificio di Cristo, dona alla tua esistenza un valore incommensurabile! Tutta la tua vita acquista un senso totalmente nuovo. Per questo, noi possiamo dire di essere sacerdoti della nostra stessa esistenza».

«È questo il sacerdozio del fedeli di cui si parla nel libro?

Quando dico che il fedele non è un semplice spettatore, trovo giustificazione nel Sacramento del Battesimo. Da cristiani iniziati, cioè battezzati e cresimati, noi siamo innestati in Cristo per sempre, cioè diventiamo membra del Suo stesso Corpo. Nel rito del battesimo questo principio è tradotto con una formula bellissima: mentre si unge il capo del bambino con il Sacro Crisma si dice che questi è assimilato a Cristo “Sacerdote, Re e Profeta”. Queste sono esattamente le stesse tre categorie che si usano per il sacerdozio dei ministri. È chiaro che, in quest’ultimo, si aggiunge una configurazione a Cristo totalmente nuova, per cui la Messa del sacerdote e la Messa del fedele non saranno mai la stessa cosa. Certamente però, anche per il fedele laico, c’è un aspetto di profonda partecipazione al sacrificio eucaristico».

† Edoardo, vescovo

Asterischi – 14 novembre 2019

Desidero riprendere alcune domande e le relative risposte dell’intervista a tutto campo fatta da Aldo Cazzullo, per il Corriere della sera, al card. Camillo Ruini, Presidente della Conferenza dei Vescovi Italiani per tanti anni, e cruciali nella vita della società… Si è fatto molto clamore intorno a questa intervista; giova, invece, riflettere seriamente poiché il Cardinale con chiarezza ed equilibrio invidiabile – se ne trova poco oggi da ogni parte – risponde a domande come queste:

«Cosa si può fare per combattere il calo delle vocazioni? … E anche le chiese, spesso disertate dai fedeli?»

«A tutti questi interrogativi la risposta decisiva è una sola: noi cristiani, e in particolare noi sacerdoti e religiosi, dobbiamo essere più vicini a Dio nella nostra vita, condurre una vita più santa, e domandare tutto questo a Dio nella preghiera. Senza stancarci».

«Vede un declino dell’autorevolezza della Chiesa italiana?»

«Lo vedo, purtroppo. Anche se non dobbiamo esagerare, e tanto meno disperare. Per recuperare autorevolezza dobbiamo esprimerci con chiarezza, coraggio e realismo sui problemi concreti; così la gente può comprendere che il messaggio cristiano la riguarda da vicino».

«Il Papa emerito Ratzinger ha affermato che la crisi dell’Europa è antropologica: l’uomo non sa più chi è. Lei è d’accordo?»

«Sì. Il principale motivo per cui non sappiamo più chi siamo è che non crediamo più di essere fatti a immagine di Dio; la conseguenza è che non abbiamo più la nostra identità, rispetto al resto della natura».

Queste domande e queste risposte hanno ricevuto attenzione scarsa – o sono state ignorate – da parte dei media, rispetto a quelle sul cattolicesimo politico di sinistra, sulla ventilata fondazione di un nuovo partito dei cattolici, sulla valutazione su Salvini e il dialogo con lui.

Alla domanda: «Ha l’impressione che i cattolici nella politica italiana non contino molto?» il cardinale risponde: «Sì, oggi è così. E non per caso. Ma spero che non si tratti di una situazione irreversibile».

“E non per caso”! Qui sta il punto da cui dovremmo partire a riflettere!

Don Martín Lasarte, missionario uruguaiano in Angola, ha partecipato, invitato da Papa Francesco, al Sinodo dell’Amazzonia. «Non ci saranno vocazioni alla vita religiosa e sacerdotale in Amazzonia se non ci sono processi seri e profondi di annuncio ed evangelizzazione nelle comunità cristiane, di fede contagiosa, di testimoni credibili». «In molti luoghi – scriveva Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium” – c’è carenza di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Questo si deve spesso alla mancanza di zelo apostolico contagioso nelle comunità, che non li entusiasma né li affascina».

«È mancato – ha rilevato in riferimento al Sinodo – un più profondo senso di autocritica ecclesiale. Mi riferisco alla scarsa incidenza pastorale di questi ultimi cinquant’anni nelle diverse realtà ecclesiali amazzoniche. Quali sono le cause della sua povertà pastorale e della sua infertilità? A mio avviso, non sono stati sufficientemente toccati i temi dell’ideologizzazione sociale del ministero pastorale e della mancanza di una testimonianza credibile, coerente e splendente di santità dei ministri (fenomeno di tanti abbandoni di vita religiosa e sacerdotale, o di vita ambigua). A mio avviso, i problemi più profondi dell’evangelizzazione non sono stati focalizzati. Quali sono le nuove vie proposte dal Sinodo? Solo nuove strutture e le ordinazioni di “viri probati”. Mi sembra che queste novità siano enormemente povere. A mio modo di vedere, la nuova veste in cui dobbiamo rivestirci con nuovo fervore è un problema di fede: indossare Cristo. Il pericolo è quello  di una Chiesa trasformata in ONG. Si riduce il mistero, la vita e l’azione della Chiesa a varie attività di “advocacy” e di servizio sociale».

“Quali sono le cause?”. Anche qui una domanda. E da essa occorre partire a riflettere.

† Edoardo, vescovo

Asterischi- 24 ottobre 2019

La diocesi di Biella celebrerà, il prossimo anno, il V Centenario dell’Incoronazione della Vergine, Regina del Monte di Oropa. Vi parteciperemo anche noi di Ivrea che ogni anno saliamo al santuario della Vergine Bruna con il pellegrinaggio tra i più numerosi di quelli che Oropa annualmente accoglie. Qui, in diocesi, il 27 agosto scorso, a Prascundù, abbiamo ricordato in festa il IV Centenario dell’Apparizione della Vergine, venuta a portare conforto ad un povero ragazzo, Giovannino. Continuando il gesto che i Vescovi eporediesi hanno compiuto lungo i secoli ponendo una Corona sul capo della Tuttasanta Madre di Dio, abbiamo rinnovato l’Incoronazione della venerata statua di Maria.

L’Incoronazione della Vergine ha il suo significato in relazione alla Incoronazione di Gesù Cristo, Re dell’universo. Partecipe come nessun altro di tutto il Mistero di Cristo, Maria partecipa anche della gloria di Cristo risorto che siede alla destra del Padre ed è salutato dalla Chiesa Vincitore della morte e del peccato, Re e Signore di tutto ciò che esiste.

Nella festa della Assunzione di Maria al Cielo in tutta la sua persona, corpo e anima, la Chiesa canta: «Oggi Maria è salita nei cieli. Rallegratevi! Con Cristo regna per sempre».

Queste parole ci danno il senso vero della vita. C’è in esse, innanzitutto, il richiamo al «Cielo» che è la destinazione della nostra vita oltre la morte. Ci crediamo? Non solo vagamente, ma con la certezza che ci insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde. E’ chiamata “cielo” questa comunione di vita e di amore con la SS. Trinità, con la Vergine Maria, gli Angeli e tutti i Santi. Gesù Cristo ci ha “aperto” il cielo con la sua morte e risurrezione».

«Maria con Cristo regna per sempre». Queste parole ci svelano anche l’impostazione che già ora, sulla terra, dobbiamo dare alla nostra vita per entrare, dopo la morte, nella piena felicità: già ora si tratta di regnare con Cristo, e, questo regnare si esprime nei giorni terreni nel condividere la Sua Croce, la Sua corona di spine, il Suo inginocchiarsi a lavare i piedi: regnare è servire, donarsi, conformarsi a Cristo, esercitando il “sacerdozio regale” che tutti abbiamo ricevuto nel S. Battesimo e che da tutti quindi deve essere esercitato nei diversi ambiti dell’esistenza, nella vita anche sociale e politica alla quale siamo chiamati a partecipare alla luce di una chiara ispirazione cristiana: «Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell’universo – insegna san Giovanni Paolo II – i fedeli vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato, e poi mediante il dono di sé  per servire Gesù stesso, nella carità e nella giustizia».

Anche a questo riguardo mi sia permessa una domanda: quella posta in una sua catechesi del ’67 dal grande Pontefice san Paolo VI, il quale, dopo aver presentato, alla luce del Concilio Vaticano II, la natura e l’esercizio del sacerdozio regale dei battezzati, diceva: «Dobbiamo chiedere a noi stessi se la coscienza del carattere sacro della nostra vita, compaginata a quella di Cristo, sia davvero in noi sveglia ed operante; se essa ci aiuti a ben giudicare il bene e il male morale; e se la doverosa premura di distinguere il sacro dal profano, tanto nel campo del sapere come in quello dell’operare, non ci faccia spesso dimenticare che siamo tutti rivestiti d’un carattere sacerdotale, e non ci porti a dissacrare la nostra mentalità, il nostro abito, la nostra attività; vi è una tendenza a far scomparire il nome di cattolico, a tutto laicizzare e desacralizzare. Sarebbe tale tendenza conforme allo spirito del Concilio? avrebbe essa la virtù di animare quel rinnovamento che il Concilio intende promuovere? Fatte le debite distinzioni, a Noi non sembra. E a voi, diletti Figli, che cosa sembra?»

† Edoardo, vescovo

Asterischi – 3 ottobre 2019

Mese di Ottobre, mese missionario, non solo quest’anno. Ho letto un interessante articolo di Sandro Magister che commenta sull’Espresso del 23 settembre scorso ciò che affermano i fautori dei preti sposati motivando la richiesta con la scarsità di preti celibi in regioni dove alle piccole comunità disperse bisogna assicurare – dicono – che si offra a tutti la celebrazione della Messa a cadenza regolare, e non soltanto rare volte all’anno.  

«Curiosamente – scrive il giornalista – gli stessi che si mostrano così generosi nel voler elargire l’eucaristia sono anche i più avari nel convertire e amministrare il battesimo, evidentemente da loro equiparato al “proselitismo”: “Non ho mai battezzato un indio, e neppure lo farò in futuro”, ha detto il vescovo Erwin Kräutler.

La contraddizione maggiore, però, è con due millenni di storia della Chiesa, che hanno visto innumerevoli casi di scarsità di preti celibi per comunità disperse, senza però che nessuno derivasse da ciò – con ragionamento puramente funzionale, organizzativo – l’obbligo di reclutare come celebranti anche uomini sposati, i cosiddetti “viri probati”. Non solo. La storia insegna che la scarsità di preti celibi non necessariamente si risolve in un danno per la “cura d’anime”. Anzi, in alcuni casi addirittura coincide con una fioritura della vita cristiana. È stato così, ad esempio, nella Cina del XVII secolo. Ne ha dato conto una fonte insospettabile, “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma, in un dotto articolo di tre anni fa del sinologo gesuita Nicolas Standaert, docente all’Università Cattolica di Lovanio.

Nel XVII secolo in Cina i cristiani erano pochi e dispersi. Scrive Standaert: “Quando Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610, dopo trent’anni di missione, c’erano circa 2.500 cristiani cinesi. Nel 1665 i cristiani cinesi erano diventati probabilmente circa 80.000, e intorno al 1700 erano circa 200.000″.

E pochissimi erano anche i sacerdoti: “Alla morte di Matteo Ricci, c’erano soltanto 16 gesuiti in tutta la Cina: otto fratelli cinesi e otto padri europei. Con l’arrivo dei francescani e dei domenicani, intorno al 1630, e con un lieve incremento dei gesuiti nello stesso periodo, il numero dei missionari stranieri arrivò a più di 30, e rimase costante tra i 30 e i 40 nell’arco dei successivi trent’anni. In seguito vi fu un incremento, raggiungendo un picco di circa 140 tra il 1701 e il 1705. Ma poi a causa della controversia sui riti il numero dei missionari si ridusse di circa la metà”.

Di conseguenza la gran parte dei cristiani cinesi incontravano il sacerdote non più di “una o due volte l’anno”. E nei pochi giorni in cui durava la visita, il sacerdote “conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei catecumeni. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia, predicava, battezzava”.

Poi il sacerdote per molti mesi spariva. Eppure le comunità reggevano. Anzi, conclude Standaert: “Si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di pratica cristiana”. Senza elucubrazione alcuna sulla necessità di ordinare uomini sposati».

Vorrei ricordare un missionario della nostra terra, la cui memoria, forse, si è sbiadita: il Beato Antonio Rubino, nato a Strambino ed entrato giovane a Torino nella Compagnia di Gesù. Dopo aver proseguito gli studi ad Arona e a Milano, nel 1612 fu inviato in missione in India, a Goa. Qui insegnò teologia e si dedicò alla predicazione al popolo facendosi amare da tutti.

Nel 1639 ricevette l’ordine di partire per la colonia portoghese di Macao e di qui in Giappone. Grandi difficoltà fecero tardare la partenza: solo nell’agosto del 1642 insieme a quattro compagni riuscì a imbarcarsi per l’isola giapponese di Sodsuma. Ma giunti a Nagasaki furono arrestati, messi in prigione e barbaramente torturati. Caricati poi su giumenti, con la museruola alla bocca ed una scritta sulla schiena, furono portati al luogo del supplizio, appesi capovolti ad un palo, sepolti a metà in una fossa, e lasciati morire. Era il 22marzo 1643. Diede la vita per l’annuncio del Vangelo poiché il Vangelo era diventato la sua vita.

† Edoardo, vescovo

Asterischi – 26 settembre 2019

Ho partecipato anche quest’anno, a Chivasso, alla Festa patronale del Beato Angelo che – come quella di San Savino a Ivrea – non è la Festa di una singola Comunità parrocchiale, ma di una intera Città, con le sue Istituzioni religiose, civili e culturali; di tutta la Città, pur nella evidenza del fatto che non tutti oggi si riconoscono cristiani e si dichiarano aderenti alla fede che ha plasmato il volto e la vita del nostro popolo. 

Negli anni scorsi ho cercato di presentare il Beato Angelo guardando alla sua vita, al suo pensiero, al suo insegnamento affidato, in particolare, alle pagine preziose della sua “Summa” che Lutero mise sul rogo: ne emerge un cristiano che dalla fede vissuta e dalle sue scelte di vita ha ricevuto una fisionomia che non risulta sbiadita per lo scorrere dei secoli; che ha molto, anzi, da dire anche oggi, nel nostro tempo, in una situazione di incertezze e confusioni, in cui la fede cristiana e la stessa ragione umana sembrano perdere terreno.

Due anni fa ho ricordato ai Chivassesi quanto il S. Padre scriveva ai partecipanti ad una Manifestazione culturale che sempre si svolge a fine agosto, proprio mentre Chivasso celebra la sua Festa patronale: «Uno dei limiti delle società attuali è di avere poca memoria, e questo ha delle conseguenze gravi: si diventa preda dei capricci e delle voglie del momento, schiavi di falsi miti che promettono la luna, ma ci lasciano delusi e tristi, alla ricerca spasmodica di qualcosa che riempia il vuoto del cuore» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 20.08.2017). E l’anno scorso, a 50 anni dal Sessantotto, ho accennato – ancora citando il S. Padre – alla «svolta cruciale avvenuta nella società, i cui effetti – dice il Papa – non si sono esauriti a cinquant’anni di distanzaLa rottura con il passato divenne l’imperativo categorico di una generazione che riponeva le proprie speranze in una rivoluzione delle strutture capace di assicurare maggiore autenticità di vita. Tanti credenti cedettero al fascino di tale prospettiva e fecero della fede un moralismo che, dando per scontata la Grazia, si affidava agli sforzi di realizzazione pratica di un mondo migliore. […] Oggi un senso di paura prevale sulla fiducia nel futuro. Nessuno sforzo, nessuna rivoluzione può soddisfare il cuore dell’uomo. Solo Dio, che ci ha fatti con un desiderio infinito, lo può riempire della sua presenza infinita; per questo si è fatto uomo: affinché gli uomini possano incontrare Colui che salva e compie il desiderio di giorni felici. La natura del cristianesimo consiste nel riconoscere la presenza di Gesù e seguirlo» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).

Quest’anno ho preso spunto da quanto Papa Francesco ha detto commentando un verso stupendo – «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» – di una poesia dedicata da san Giovanni Paolo II a colei che ricevette il nome di Veronica: la vera Icona; la donna che, facendosi largo tra la folla per asciugare il volto di Gesù sulla via della croce, riceve in dono il volto di Cristo e il proprio nome.

«Per affermare il nostro volto unico e irripetibile – scrive il Santo Padre – abbiamo bisogno di guardare a Gesù Cristo, mentre tanti nostri contemporanei cadono sotto i colpi delle prove della vita, e si trovano soli e abbandonati… L’uomo di oggi vive spesso nell’insicurezza, camminando come a tentoni, estraneo a sé stesso; sembra non avere più consistenza, tanto è vero che facilmente si lascia afferrare dalla paura. Per ritrovare se stesso e la speranza, per guardare tutto con occhi nuovi, occorre fissare lo sguardo sul volto di Gesù e acquistare familiarità con Lui. In un’epoca dove le persone sono spesso senza volto, figure anonime perché non hanno nessuno su cui posare gli occhi, la poesia dei San Giovanni Paolo II ci ricorda che noi esistiamo in quanto siamo in relazione. È questo che rende il cristiano una presenza nel mondo diversa da tutte le altre, perché porta l’annuncio di cui più hanno sete – senza saperlo – gli uomini e le donne del nostro tempo. Saremo “originali” se il nostro volto sarà lo specchio del volto di Cristo risorto. La Sua Presenza tra noi è il miracolo dei miracoli. Questa è l’origine della gioia profonda che niente e nessuno ci può togliere: il nostro nome è scritto nei cieli, e non per i nostri meriti, ma per un dono che ciascuno di noi ha ricevuto con il Battesimo. Un dono che siamo chiamati a condividere con tutti, nessuno escluso. Questo significa essere discepoli missionari» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).

Per conservare la Città – ho detto ai Chivassesi – e con essa la nostra civiltà, il patrimonio di valori faticosamente conquistati, non basta lamentare il pericolo – che tutta l’Europa sta correndo – di perdere ciò che siamo. Occorre agire, convinti che la soluzione vera – e urgente – è ricordare il nostro nome e far sì che esso rinasca da ciò che fissiamo, dal Signore Gesù, noi che per grazia siamo cristiani: a Chivasso, nel Canavese, in Italia e in questa Europa che non è riducibile a Bruxelles e alle sue Istituzioni, ma che è costituita dai Popoli e dalle Nazioni, dagli uomini e dalle donne dell’Europa, con la loro storia, la loro vita ed i valori che l’hanno caratterizzata!

† Edoardo, vescovo