Ho partecipato anche quest’anno, a Chivasso, alla Festa patronale del Beato Angelo che – come quella di San Savino a Ivrea – non è la Festa di una singola Comunità parrocchiale, ma di una intera Città, con le sue Istituzioni religiose, civili e culturali; di tutta la Città, pur nella evidenza del fatto che non tutti oggi si riconoscono cristiani e si dichiarano aderenti alla fede che ha plasmato il volto e la vita del nostro popolo.
Negli anni scorsi ho cercato di presentare il Beato Angelo guardando alla sua vita, al suo pensiero, al suo insegnamento affidato, in particolare, alle pagine preziose della sua “Summa” che Lutero mise sul rogo: ne emerge un cristiano che dalla fede vissuta e dalle sue scelte di vita ha ricevuto una fisionomia che non risulta sbiadita per lo scorrere dei secoli; che ha molto, anzi, da dire anche oggi, nel nostro tempo, in una situazione di incertezze e confusioni, in cui la fede cristiana e la stessa ragione umana sembrano perdere terreno.
Due anni fa ho ricordato ai Chivassesi quanto il S. Padre scriveva ai partecipanti ad una Manifestazione culturale che sempre si svolge a fine agosto, proprio mentre Chivasso celebra la sua Festa patronale: «Uno dei limiti delle società attuali è di avere poca memoria, e questo ha delle conseguenze gravi: si diventa preda dei capricci e delle voglie del momento, schiavi di falsi miti che promettono la luna, ma ci lasciano delusi e tristi, alla ricerca spasmodica di qualcosa che riempia il vuoto del cuore» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 20.08.2017). E l’anno scorso, a 50 anni dal Sessantotto, ho accennato – ancora citando il S. Padre – alla «svolta cruciale avvenuta nella società, i cui effetti – dice il Papa – non si sono esauriti a cinquant’anni di distanza… La rottura con il passato divenne l’imperativo categorico di una generazione che riponeva le proprie speranze in una rivoluzione delle strutture capace di assicurare maggiore autenticità di vita. Tanti credenti cedettero al fascino di tale prospettiva e fecero della fede un moralismo che, dando per scontata la Grazia, si affidava agli sforzi di realizzazione pratica di un mondo migliore. […] Oggi un senso di paura prevale sulla fiducia nel futuro. Nessuno sforzo, nessuna rivoluzione può soddisfare il cuore dell’uomo. Solo Dio, che ci ha fatti con un desiderio infinito, lo può riempire della sua presenza infinita; per questo si è fatto uomo: affinché gli uomini possano incontrare Colui che salva e compie il desiderio di giorni felici. La natura del cristianesimo consiste nel riconoscere la presenza di Gesù e seguirlo» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).
Quest’anno ho preso spunto da quanto Papa Francesco ha detto commentando un verso stupendo – «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» – di una poesia dedicata da san Giovanni Paolo II a colei che ricevette il nome di Veronica: la vera Icona; la donna che, facendosi largo tra la folla per asciugare il volto di Gesù sulla via della croce, riceve in dono il volto di Cristo e il proprio nome.
«Per affermare il nostro volto unico e irripetibile – scrive il Santo Padre – abbiamo bisogno di guardare a Gesù Cristo, mentre tanti nostri contemporanei cadono sotto i colpi delle prove della vita, e si trovano soli e abbandonati… L’uomo di oggi vive spesso nell’insicurezza, camminando come a tentoni, estraneo a sé stesso; sembra non avere più consistenza, tanto è vero che facilmente si lascia afferrare dalla paura. Per ritrovare se stesso e la speranza, per guardare tutto con occhi nuovi, occorre fissare lo sguardo sul volto di Gesù e acquistare familiarità con Lui. In un’epoca dove le persone sono spesso senza volto, figure anonime perché non hanno nessuno su cui posare gli occhi, la poesia dei San Giovanni Paolo II ci ricorda che noi esistiamo in quanto siamo in relazione. È questo che rende il cristiano una presenza nel mondo diversa da tutte le altre, perché porta l’annuncio di cui più hanno sete – senza saperlo – gli uomini e le donne del nostro tempo. Saremo “originali” se il nostro volto sarà lo specchio del volto di Cristo risorto. La Sua Presenza tra noi è il miracolo dei miracoli. Questa è l’origine della gioia profonda che niente e nessuno ci può togliere: il nostro nome è scritto nei cieli, e non per i nostri meriti, ma per un dono che ciascuno di noi ha ricevuto con il Battesimo. Un dono che siamo chiamati a condividere con tutti, nessuno escluso. Questo significa essere discepoli missionari» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).
Per conservare la Città – ho detto ai Chivassesi – e con essa la nostra civiltà, il patrimonio di valori faticosamente conquistati, non basta lamentare il pericolo – che tutta l’Europa sta correndo – di perdere ciò che siamo. Occorre agire, convinti che la soluzione vera – e urgente – è ricordare il nostro nome e far sì che esso rinasca da ciò che fissiamo, dal Signore Gesù, noi che per grazia siamo cristiani: a Chivasso, nel Canavese, in Italia e in questa Europa che non è riducibile a Bruxelles e alle sue Istituzioni, ma che è costituita dai Popoli e dalle Nazioni, dagli uomini e dalle donne dell’Europa, con la loro storia, la loro vita ed i valori che l’hanno caratterizzata!
† Edoardo, vescovo