Carissimi,
Vorrei anzitutto salutare e ringraziare il Sindaco di Ivrea, il presidente del Consiglio regionale del Piemonte, gli assessori qui presenti, le altre autorità civili e militari, e in particolar modo gli agenti di polizia penitenziaria – che hanno accompagnato e custodito l’urna con i resti mortali del nostro patrono Savino – e con loro l’Associazione Eporedia 2004, cui è stata affidata la regia degli eventi che in questi giorni hanno reso ancora più viva e accogliente la nostra città.
Saluto e ringrazio anche i fratelli vescovi Farinella, Debernardi e Piretto, siete figli di questa terra e parte di questa storia, è bello e per me consolante che voi siate qui oggi per celebrare e pregare manifestando una comunione che è sempre conforto e sostegno nel cammino.
Savino è vescovo e martire, come vescovo aveva ricevuto il compito di aver cura della Chiesa locale affidatagli, ed in particolar modo gli veniva chiesto di custodire e nutrire la fede di tutti coloro che di quella Chiesa erano parte. Non poteva così pensare solo a se stesso, ma ogni suo pubblico gesto aveva rilevanza non solo simbolica ma anche testimoniale per il suo popolo. Vescovo e martire: gli era stato imposto dal prefetto Venustiano, di adorare un simulacro di Giove, sceglie di distruggerlo, per asserire che questi non poteva essere dio. A questo suo gesto, segue l’amputazione delle mani, ben rappresentata nell’affresco settecentesco del Cogrossi che troviamo nella cappella del Santissimo sacramento (o di san Savino). Quella prima forma di passione fu dettata dal voler essere, non solo fedele al suo Signore, ma anche custode autentico e coraggioso della retta fede. Proprio così, il compito che la vita o la Provvidenza ci ha affidato, chiede a ciascuno di noi di essere sempre un testimone, e ogni testimonianza può comportare la partecipazione ad una certa forma di martirio, questo ce lo ricorda la stessa lingua greca che traduce proprio con μαρτυρία la testimonianza che spetta ad ognuno.
Ma l’essere testimoni, e in questo solco anche martiri, non è essenzialmente un dovere per noi cristiani. Ben lo ha espresso papa Benedetto XVI quando in un Angelus del 2007 asseriva che:
“Lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo. Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori. […] Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con Lui, “accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente”.
Con queste medesime parole vorrei rivolgermi ai sacerdoti e ai diaconi della nostra Diocesi. Condivido con voi – figli e fratelli – ciò che ho finora appreso della dinamica cristiana dell’obbedienza, tanto da volerla riportare nel mio motto: quell’ amore, che ha condotto tanti nostri fratelli e sorelle al martirio, è la fonte della vera e più autentica obbedienza. La nostra comune obbedienza al Vangelo non è solamente un atto della volontà motivato dall’intelletto. Perché generi la vita in Cristo e sia intrinsecamente spirituale, la nostra obbedienza è risposta d’amore ad un cenno di Colui che ci ha chiamati, e sarà così l’amore a tirar fuori da noi energie che pensavamo di non avere più o ad aiutarci nell’accogliere quei limiti che la vita ci pone innanzi. Può accadere invece che – pur senza volerlo – viviamo in un’obbedienza che in realtà ci mantiene in una sorta di torpore privo di affetto, e che dunque ci porta ad esercitare il nostro ministero piuttosto come esecutori di compiti e doveri. L’obbedienza mossa da un autentico discernimento, al contrario libera gli affetti, e dà ad essi l’alimento dell’amore creativo e fragile, che tiene cioè conto teneramente anche della nostra debolezza, preservandoci dal rischio di vivere il ministero nella diabolica illusione dell’onnipotenza.
È sempre papa Benedetto ad aiutarci nel compiere un ulteriore passo avanti nella comprensione di un martirio mosso dall’amore. In una sua Lectio divina a commento del Discorso di Paolo agli “anziani” di Efeso, papa Ratzinger così scriveva:
“San Paolo sa che probabilmente il viaggio a Gerusalemme gli costerà la vita: sarà un viaggio verso il martirio. Qui dobbiamo tenere presente il perché del suo viaggio. Va a Gerusalemme per consegnare a quella comunità, alla Chiesa di Gerusalemme, la somma per i poveri raccolta nel mondo dei Gentili. E’ quindi un viaggio di carità, ma di più: questa è un’espressione del riconoscimento dell’unità della Chiesa tra ebrei e gentili, è un riconoscimento formale del primato di Gerusalemme in quel tempo, del primato dei primi Apostoli, un riconoscimento dell’unità e dell’universalità della Chiesa. In questo senso, il viaggio ha un significato ecclesiologico e anche cristologico, perché ha così tanto valore per lui questo riconoscimento, questa espressione visibile dell’unicità e dell’universalità della Chiesa, che mette in conto anche il martirio. L’unità della Chiesa vale il martirio”.
Sì, l’amore per noi battezzati può avere anche a che fare con quel martirio, con quel saper rinunciare a parole, idee, convinzioni, gesta, che possono mettere a rischio l’unità della Chiesa. Posso scegliere per amore il martirio della rinuncia all’affermazione delle mie idee se intuisco che questo farà bene alla comunione, che – come già ricordavo nella messa d’ingresso ad Ivrea – non si realizza per simpatia ma per quelle parole che diremo o ascolteremo nella seconda epiclesi della terza preghiera eucaristica: “A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”.
Infine, San Savino ha miracolosamente donato la vista ai suoi nemici proprio attraverso ciò che in lui era stato segnato dal martirio: attraverso le sue braccia monche ha guarito colui che aveva ordinato l’amputazione delle sue mani: ciò che mi ha dato dolore ed ha posto un limite forzato alla mia voglia di vivere, diventa ora la via per donare la vita eterna a chi non ne ha mai sentito parlare o la disprezza. Si ripete per lui quel processo di cui in tante occasioni ci hanno parlato gli Atti degli Apostoli: miracolo, illuminazione dell’intelletto, richiesta di conversione, dono della fede, celebrazione del sacramento: Venustiano chiede di essere battezzato proprio dopo esser stato guarito dai moncherini del nostro patrono. Quando si sceglie di rispondere al male con il bene, quando si scelgono parole e azioni di pace come risposta alternativa ad una pur motivata reazione violenta, si sente il profumo della vita eterna. Papa Leone XIV, in questo pur breve periodo di pontificato, ha già pronunciato parole molto forti in questa direzione:
“È veramente triste assistere oggi in tanti contesti all’imporsi della legge del più forte, in base alla quale si legittimano i propri interessi. È desolante vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza. Questo è indegno dell’uomo, è vergognoso per l’umanità e per i responsabili delle nazioni. Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte? Come si può pensare di porre le basi del domani senza coesione, senza una visione d’insieme animata dal bene comune? Come si può continuare a tradire i desideri di pace dei popoli con le false propagande del riarmo, nella vana illusione che la supremazia risolva i problemi anziché alimentare odio e vendetta? […] E mi chiedo: da cristiani, oltre a sdegnarci, ad alzare la voce e a rimboccarci le maniche per essere costruttori di pace e favorire il dialogo, che cosa possiamo fare? Credo che anzitutto occorra veramente pregare. Sta a noi fare di ogni tragica notizia e immagine che ci colpisce un grido di intercessione a Dio. E poi aiutare, come fate voi e come molti fanno, e possono fare, attraverso di voi. Ma c’è di più, e lo dico pensando specialmente all’Oriente cristiano: c’è la testimonianza. È la chiamata a rimanere fedeli a Gesù, senza impigliarsi nei tentacoli del potere. È imitare Cristo, che ha vinto il male amando dalla croce, mostrando un modo di regnare diverso da quello di Erode e Pilato: uno, per paura di essere spodestato, aveva ammazzato i bambini, che oggi non cessano di essere dilaniati con le bombe; l’altro si è lavato le mani, come rischiamo di fare quotidianamente fino alle soglie dell’irreparabile. Guardiamo Gesù, che ci chiama a risanare le ferite della storia con la sola mitezza della sua croce gloriosa, da cui si sprigionano la forza del perdono, la speranza di ricominciare, il dovere di rimanere onesti e trasparenti nel mare della corruzione”.
(DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV ai PARTECIPANTI all’assemblea plenaria della riunione delle Opere per l’aiuto alle chiese orientali” – 26 giugno 2025)
Queste, carissimi fratelli e sorelle sono parole chiare rivolte a chi vuole far passare il messaggio che la guerra sia l’unica via per difendere o generare la vita. Queste sono parole chiare che ci scuotono dal rischio di abituarci a ciò che sta accadendo attorno a noi, abituarci alla distruzione, all’inutilità del diritto internazionale, abituarci alla “legge del più forte” appunto. Quella testimonianza che, dopo la preghiera il Santo Padre ci chiede di offrire, avrà sempre a che fare con il martirio, con quei moncherini che avremo accettato di usare non per reagire e combattere, ma per sanare ed amare.
+ Daniele Salera
Vescovo di Ivrea