«Tutta la vita del beato John Henry Newman è espressione del grido più profondo del cuore umano, che cerca appassionatamente la Verità e quindi ha sete di Cristo e del Suo Amore», ho detto a chi mi ha intervistato, alcuni giorni fa, quando è diventata ufficiale la decisione di Papa Francesco di proclamare santo l’oratoriano inglese. Il motto scelto da Newman per il suo stemma cardinalizio – «Cor ad cor loquitur: il cuore parla al cuore» – tratto dagli scritti di san Francesco di Sales, fondatore dell’Oratorio di Thonon, rimanda al fondamento della vocazione cristiana: incontro personale con Gesù, dal quale sgorga l’incontro vero con i fratelli.
John Henry Newman (1801-1890) da anglicano divenne cattolico attraverso un lungo cammino di ricerca della verità, iniziato a 15 anni, quando lo colpì una frase di Thomas Scott: «La santità piuttosto che la pace». E’ una storia straordinaria che commuove il cuore e al tempo stesso affascina l’intelletto – due tratti della santità di Newman inscindibilmente legati – e che risuona mirabilmente sintetizzata nelle parole che egli volle incise sulla sua tomba: «Ex umbris et imaginibus in veritatem: dalle ombre e dalle apparenze alla verità»: un percorso d’approfondimento della fede attraverso lo studio teologico e storico, la preghiera e l’ascolto di Dio.
Un tratto costante del suo cammino, già nella fase anglicana, è la consapevolezza degli errori del liberalismo religioso che – scrisse Newman – «pretende di assoggettare al giudizio umano le verità rivelate» e del quale disse, nel “Discorso del biglietto”, pronunciato quando da Leone XIII fu fatto cardinale (1879), «è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, e secondo cui un credo vale quanto un altro». «Il liberalismo è contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate perché per tutte si tratta di una questione di opinioni: non una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; e quindi ciascun individuo ha il diritto di farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. Si possono frequentare le chiese protestanti e le chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna».
Newman aveva perfettamente colto i segni della «apostasia dei nostri tempi», come egli già la chiamava: il rinnegamento di Cristo. Il suo sguardo scorgeva con lucidità nella propria epoca il sorgere del relativismo e dell’indifferentismo religioso di oggi.
Trattò lucidamente del legame intrinseco tra coscienza e verità, e sostenne che la dignità della coscienza esige che non vi siano cedimenti all’arbitrarietà e al relativismo.
Ebbe la capacità di operare una sintesi eccezionale tra fede e ragione. San Giovanni Paolo II ricordò che Newman era nato in un’epoca segnata da un lato dalla minaccia del razionalismo, con il suo «rifiuto sia dell’autorità sia della trascendenza», e dall’altro dal pericolo del fideismo, con la sua incapacità di affrontare le sfide della storia e il suo cieco affidamento all’autorità. Fede e ragione fu la via di Newman: la seconda illuminata dalla prima attraverso la pratica della preghiera e la virtù dell’umiltà. «Fu la contemplazione appassionata della verità a condurlo a una accettazione liberatoria dell’autorità le cui radici sono in Cristo, e a un senso del soprannaturale che apre la mente e il cuore umani».
Lucido studioso, fu, alla scuola di san Filippo Neri, altrettanto lucido pastore, impegnato nella promozione del laicato, convinto della necessità di laici istruiti nelle verità di fede e di morale, capaci di rendere ragione della religione cattolica, di testimoniare Gesù Cristo nel mondo: «Voglio un laicato – scriveva – non arrogante, non precipitoso nei discorsi, non polemico, ma uomini che conoscono la propria religione, che in essa entrino, che sappiano bene che cosa credono e cosa non credono, che conoscano il proprio credo così bene da dare conto di esso, che conoscano così bene la storia da poterlo difendere».
+ Edoardo, Vescovo