Omelia della Domenica VIII del Tempo Ordinario nella festa di san Luigi Caravario – Cuorgné, chiesa parrocchiale, 3 Marzo 2019

03-03-2019

Carissimi Fratelli e Sorelle, sia lodato Gesù Cristo!

«I vasi del ceramista – abbiamo ascoltato nella I Lettura (Sir 27,5-8) – li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero»; e nel Vangelo (Lc 6,39-45) Gesù ci ha detto: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto». San Paolo, nella II Lettura (1Cor 15,54-58), ha detto: «Quando questo corpo mortale si sarà vestito d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!».

Alla luce di questa ricca e chiara Parola di Dio, che ci parla di prova, di frutti, di vittoria, noi guardiamo oggi a san Callisto Caravario il quale, 89 anni fa, il 25 febbraio 1930, insieme al suo vescovo mons. Luigi Versiglia, versava in Cina il proprio sangue per amore di Cristo e per vivere fino in fondo la missione, consapevole di essere stato chiamato a compiere il mandato del Signore: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato» (Mc,16,16).

All’età di neppure 27 anni – era nato qui, a Cuorgné, l’8 giugno 1903, e aveva ricevuto il Battesimo in questo fonte – era già così maturo il frutto della sua vita che, nella prova del dono totale di sé fino al sangue, poté essere coronato di vittoria. La vita di Callisto Caravario è uno splendido commento, insieme a quella di san Luigi Versiglia, alla Parola di Dio risuonata oggi fra noi. Guardando a lui non possiamo che dire: sì, il Vangelo è vero; e chiedere a noi stessi: per viverlo, ci consegniamo a Cristo? Qui, a Cuorgné, i passi della breve esistenza di questo grande figlio della vostra città sono noti; se li ripercorriamo è per contemplare il suo volto, costituito, più che dai suoi lineamenti fisici, dalla sua intera esistenza offerta al Signore, dal suo cammino sulle orme di Cristo.

Callisto – lo sappiamo – frequentò le Scuole Salesiane a Torino dove la sua famiglia si era trasferita per lavoro; dopo il Ginnasio entrò nella Congregazione, e sul suo diario annotava, fin da allora, questa preghiera: «Signore, la mia croce non desidero che sia né leggera né pesante, ma come la vuoi Tu. Solo ti chiedo di poterla portare volentieri». A 16 anni conobbe mons. Versiglia (di 30 anni più anziano di lui), che era di passaggio a Torino; Callisto gli disse: «Io la raggiungerò presto in Cina; insieme faremo conoscere la luce di Cristo». E a 21 anni partì missionario. A 26 da mons. Versiglia fu ordinato sacerdote. L’anno dopo già versava per Cristo il suo sangue. Nelle splendide e struggenti lettere alla mamma scriveva tutto il suo amore per Dio e la sua volontà di servirlo a qualsiasi costo, anche con il sacrificio supremo della vita: «Oramai il tuo Callisto non è più tuo, deve essere completamente del Signore, dedicato completamente al suo servizio! Sarà breve o lungo il mio sacerdozio? Non lo so, l’importante è che io faccia bene e che presentandomi al Signore io possa dire d’aver, col suo aiuto, fatto fruttare le grazie che Egli mi ha dato». «Madre mia, ravvivi il suo coraggio. Avere un figlio sacerdote è una grande grazia e un grande onore. Coraggio! In Paradiso il Signore la ricompenserà di tutti i sacrifici fatti per suo amore».

Visse per soli otto mesi il suo sacerdozio. Era pronto per lui il calice che Don Bosco aveva visto in un sogno raccontato ai Salesiani, a S. Benigno: una turba di ragazzi gli erano andati incontro dicendogli: «Ti abbiamo aspettato tanto»; poi, in un altro sogno, aveva visto alzarsi verso il cielo due grandi calici, uno ripieno di sudore e l’altro di sangue. Quando, nel 1918, il gruppo di missionari Salesiani partì da Valdocco per la Cina, il Rettor Maggiore don Albera donò loro il calice con il quale aveva celebrato i 50 anni del Santuario di M. Ausiliatrice, Luigi Versiglia ricevendolo disse: «Don Bosco vide che quando in Cina un calice si sarebbe riempito di sangue, l’Opera Salesiana si sarebbe meravigliosamente diffusa in mezzo a questo popolo immenso. Tu mi porti il calice visto dal Padre: a me il riempirlo di sangue per l’adempimento della visione».

In dodici anni di missione, dal 1918 al ‘30, il Vescovo Versiglia era riuscito a compiere prodigi in 1 terra ostile ai Cattolici: aveva istituito 55 stazioni missionarie rispetto alle 18 trovate; ordinato 21 sacerdoti, consacrato a Dio 2 religiosi laici, 15 suore del luogo e 10 straniere; avrebbe lasciato 31 catechisti, 39 insegnanti e 25 seminaristi e 3000 convertiti, a fronte dei 1.479 trovati al suo arrivo.

Erano anni duri per la Cina: nel 1926 l’esercito comunista aveva costretto i sacerdoti cattolici ad abbandonare il territorio. Alla fine del 1927, quando il generale Chiang Kai-Shek, oppositore dei comunisti sostenuti da Stalin, dichiarò fuorilegge i comunisti, anche i Salesiani riuscirono a ritornare, ma le turbolenze rimanevano forti.

Il 24 febbraio 1930 il Vescovo e don Callisto partirono per la Visita Pastorale ad alcune comunità cristiane nel distretto di Lin Chow, insieme a due allievi del Collegio Don Bosco, che tornavano a casa per le vacanze con due loro sorelle ed una catechista. Nella turbolenta situazione polica mons. Versiglia aveva detto: «Se aspettiamo che le vie siano sicure, non si parte più… Guai se la paura prende il sopravvento! Sarà quel che Dio vorrà!». Il 25 proseguirono il viaggio in barca sul fiume Pak-kong. Stavano recitando l’Angelus, qd dalla riva una decina di uomini, di orientamento bolscevico, con i fucili puntati intimarono loro di approdare alla riva. In due si avventano sull’imbarcazione e scoprirono le tre donne nascoste; volevano portarle via, ma mons. Versiglia e don Callisto le difesero, facendo barriera. I due li colpirono con il calcio dei fucili, poi li legarono e li trascinarono in un bosco: «Bisogna distruggere la Chiesa Cattolica» dicevano. Don Callisto e mons. Versiglia si misero a pregare ad alta voce, in ginocchio… Cinque colpi di fucile interruppero la preghiera. Il loro ultimo respiro fu p le anime d loro amata Cina. I due allievi con le tre giovani avevano udito e visto tutto: e testimonieranno l’accaduto.

Carissimi Fratelli e Sorelle,

al calice del sudore si univa quello del sangue…

La Chiesa si ama e si serve così… Il resto sono chiacchiere anche se fatte nei solenni Congressi o nelle Commissioni pastorali… San Giovanni Paolo II, beatificando nel 1983 i due martiri che avrebbe poi proclamati santi nel 2000, ricordò le parole di chi aveva conosciuto don Callisto Caravario: «E’ diventato santo non perché martire, ma è diventato martire perché santo». Mons. Versiglia, nell’ultima lettera, poche settimane prima della morte scriveva: «Solleviamo in alto i nostri cuori, dimentichiamo di più noi stessi e parliamo di più di Dio, del modo di servirlo di più, di consolarlo di più, del bisogno e del modo di guadagnargli delle anime».

Sia lodato Gesù Cristo!