Lettera pastorale 2025/2026

“Vivere e annunciare la riconciliazione”, questo è l’itinerario che chiedo a tutta la Diocesi di vivere, nelle sue varie componenti e nelle sue diverse espressioni carismatiche, per l’anno pastorale 2025/26. Nel definire i contenuti di questa mia prima Lettera pastorale mi sono messo anch’io in ascolto di ciò che lo Spirito chiedeva alla nostra Chiesa locale e proprio nel celebrare l’eucaristia feriale, nel corso di un campo estivo parrocchiale presso la nostra Casa Alpina, è arrivata questa luce: il messaggio di Paolo sulla riconciliazione (2Cor 5) ci avrebbe offerto le tracce per la nostra conversione ed un’indicazione chiara per la nostra missione. Lo ripropongo qui in tutta la sua bellezza:

L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (2Cor 5,14-21).

Il brano fa parte della prima sezione della «lettera più appassionata di Paolo» , e non a caso gli esegeti considerano questa prima sezione della lettera (cap. 1-9) come la “lettera della riconciliazione”. Il legame fra Paolo e la comunità di Corinto era stato intaccato dall’opera malevola di alcuni suoi detrattori che lo avevano messo in cattiva luce agli occhi della comunità: l’Apostolo cerca così di ricomporre nella pace quel legame originale e generativo. Questa lettera comunica – come ricordava il compianto professor Pitta – la passione di Paolo per i Corinzi, ed è da annoverare come il suo testo più autobiografico.

L’amore del Cristo infatti ci possiede (2Cor 5,14)

L’incipit della nostra pericope è di tale intensità da aver toccato il cuore di un grande santo piemontese che lo ha scelto come motto: entrando nella Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino, subito ci accoglie Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo ed il suo Caritas Christi urget nos. «Il genitivo “amore di Cristo” è da ritenersi soggettivo; cioè è il suo amore verso di noi il motore di tutto, e non il contrario». Quanto lo aveva capito il nostro santo, quanto aveva capito che ogni sua opera, ogni servizio offerto agli ultimi e ai disprezzati della sua Torino, era solo un effetto dell’amore ricevuto da Cristo. Paolo prosegue affermando di aver compreso di aver ricevuto la “diaconia” (il servizio) della riconciliazione e di dover essere annunciatore di quella riconciliazione che Dio attraverso Cristo ha voluto donare all’umanità. Spiega poi come sarà possibile una tale riconciliazione: “non imputando agli uomini le loro colpe”. Il verbo “imputare” ha in Paolo il suo più grande estimatore nel Nuovo Testamento, ed è spesso collegato a peccato, debito, giustificazione, giustizia. Non imputare i debiti, tutto ciò ha voluto Dio per noi attraverso il Salvatore, e Paolo ha compreso che questo sarà il suo servizio per gli uomini del suo tempo: annunciare che Dio in Cristo non vuole imputare i debiti, bensì li toglie dal legame esistente con l’umanità, chiedendo poi ai discepoli del Figlio di avere “occhi nuovi”, uno sguardo che non imputa più il male. Questa verità di fede ci è anche riproposta dall’esperienza di grazia e misericordia che stiamo vivendo nel “tempo propizio” del Giubileo:

Togliamo dunque di mezzo subito questo male, gettiamoci ai piedi del Padrone e supplichiamolo piangendo che, fattosi propizio, ci riconcilia e ci ristabilisca nella nostra onorevole venerabile pratica di amore fraterno. La porta della giustizia aperta alla vita è infatti questa, come sta scritto: Apritemi le porte della giustizia: vi entrerò e confesserò al Signore. Questa la porta del Signore: i giusti vi entreranno (Sal 117,19s).

Forse non tutti fra noi vivono in un condominio, ma quasi tutti hanno a che fare con i più diversi vicini di casa. Si può accumulare tanto rancore per un vicino che si alza sempre prima di me e mi impedisce di riposare, per quel vicino che non chiude le finestre e mi fa sentire ogni giorno gli “odori” della sua cucina. Posso arrivare a non sopportare più chi ascolta la musica ad alto volume, o chi urla in casa invece di parlare, e posso identificare i miei vicini così, come coloro che mi dànno un fastidio enorme, che non sopporto più, che non vorrei avere lì a pochi metri da me. Così posso non sapere che quel vicino che lascia la spazzatura accanto alla porta di notte, per poi buttarla la mattina quando esce, sia un bravo chirurgo che ha salvato tante vite in sala operatoria o magari è un volontario della Croce Rossa, un’insegnante veramente dedita alla crescita dei suoi alunni o una mamma che ha perso un bambino tanto atteso. Posso identificare i miei vicini con il fastidio che mi hanno dato e così ritenerli un “male assoluto”, ma i miei vicini sono anche altro, e se lo scoprissi forse avrei uno “sguardo nuovo” su di essi, potrei non guardarli più alla “maniera umana”.

Probabilmente nella nostra Diocesi non tutti hanno dei “molesti vicini di casa”, ma certamente ci facciamo un’idea molto chiara di coloro che abbiamo accanto e che conosciamo da tempo nei nostri paesi e nelle nostre città. Questo chiedo a tutti: proviamo a non guardarci più alla “maniera umana”, a non identificare l’altro con il fastidio che ci dà o con il peccato che ha commesso e di cui siamo a conoscenza. Proviamo invece ad allargare lo sguardo, per ricordarci che abbiamo accanto un grande chirurgo, un volontario che si affanna per portare le persone in ospedale, un’insegnante che vive il proprio lavoro come una vocazione, una mamma che sta soffrendo molto.

Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5,20b)

«L’imperativo – introdotto dalla formula di supplica fatta in nome di Cristo – mostra che questo processo salvifico pre-dato non può compiersi senza la libera risposta personale, sia individuale che comunitaria: “lasciatevi riconciliare con Dio”. Questa parte che spetta agli uomini non consiste però nel prendere l’iniziativa (come potrebbe suggerire l’altra traduzione, grammaticalmente sostenibile: “riconciliatevi con Dio”), quanto piuttosto nel lasciare che sia Dio a riconciliare l’uomo a sé».

Per poter accogliere e fare nostra la portata salvifica di questo testo paolino ho immaginato che potesse essere utile proporre, a tutta la Diocesi e nei diversi stati di vita, vari percorsi formativi e ritiri nonché, per i sacerdoti, i diaconi e i laici, la partecipazione agli esercizi spirituali, uno dei doni più preziosi che la Chiesa abbia offerto ai suoi figli, perché siano ristorati e custoditi nella fedeltà. Per le religiose e le consacrate rimane la proposta dei ritiri, ma al momento non quella degli esercizi (in quanto normalmente hanno già tradizioni ben avviate in questa direzione), chissà che in futuro anche per loro non si riesca – come Diocesi di Ivrea – ad offrire qualche opportunità, qualora se ne sentisse la necessità.

Vorrei concludere questo primo passaggio della Lettera con le parole che papa Leone XIV ha rivolto a noi vescovi nel corso della prima Udienza offerta ai membri della Conferenza Episcopale Italiana:

Raccomando, in particolare, di coltivare la cultura del dialogo. È bello che tutte le realtà ecclesiali – parrocchie, associazioni e movimenti – siano spazi di ascolto intergenerazionale, di confronto con mondi diversi, di cura delle parole e delle relazioni. Perché solo dove c’è ascolto può nascere comunione, e solo dove c’è comunione la verità diventa credibile. Vi incoraggio a continuare su questa strada!

Il cammino sinodale: un aiuto per “vivere la riconciliazione”

La strada che percorreremo insieme nel corso del prossimo anno pastorale si innesta nel più grande itinerario della Chiesa universale, segnato dal Cammino sinodale; siamo all’inizio della cosiddetta “fase attuativa” del percorso (giugno 2025- dicembre 2026) di cui il Vescovo diocesano è il primo responsabile:

Si tratta dell’ultima delle tre fasi del Sinodo previste agli artt. 19- 21 della costituzione apostolica Episcopalis communio (EC, 15 settembre 2018); essa segue la fase della consultazione e dell’ascolto del Popolo di Dio (tenutasi nel 2021-2023), e la fase celebrativa, che ha visto lo svolgimento delle due Sessioni dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2023 e ottobre 2024) e ha portato a termine il discernimento compiuto sulla base dell’ascolto del Popolo di Dio. Come spiega EC: «il processo sinodale ha non solo il suo punto di partenza, ma anche il suo punto di arrivo nel Popolo di Dio, sul quale devono riversarsi i doni di grazia elargiti dallo Spirito Santo per mezzo del raduno assembleare dei Pastori» (n. 7).

La fase attuativa è stata aperta da Papa Francesco con la Nota di accompagnamento del 24 novembre 2024, con cui ha consegnato alla Chiesa intera il Documento Finale. Con un atto senza precedenti nella storia dell’istituzione sinodale, dichiara che il DF «partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro (cfr. EC 18 § 1; CCC 892)» e chiede che come tale venga accolto. È dunque il DF, nella sua interezza, il punto di riferimento per la fase dell’attuazione. Al tempo stesso, la Nota ricorda che la sua applicazione richiede diverse mediazioni: «Le Chiese locali e i raggruppamenti di Chiese sono ora chiamati a dare attuazione, nei diversi contesti, alle autorevoli indicazioni contenute nel Documento, attraverso i processi di discernimento e di decisione previsti dal diritto e dal Documento stesso».

Ne parleremo in occasione delle due Assemblee diocesane previste all’inizio e al termine del prossimo anno pastorale. Il Documento Finale (DF), si articola su due assi portanti:

[…] Il cammino sinodale sta mettendo in atto ciò che il Concilio ha insegnato sulla Chiesa come Mistero e Popolo di Dio, chiamato alla santità attraverso una continua conversione che viene dall’ascolto del Vangelo. In questo senso costituisce un atto di ulteriore recezione del Concilio, ne prolunga l’ispirazione e ne rilancia per il mondo di oggi la forza profetica.

La sinodalità non è fine a se stessa, ma mira alla missione che Cristo ha affidato alla Chiesa nello Spirito. Evangelizzare è «la missione essenziale della Chiesa […] è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità profonda» (EN 14). Facendosi prossima a tutti, senza differenza di persone, predicando e insegnando, battezzando, celebrando l’Eucaristia e il sacramento della Riconciliazione, tutte le Chiese locali e la Chiesa intera rispondono concretamente al comando del Signore di annunciare il Vangelo a tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19- 20; Mc 16,15-16). Valorizzando tutti i carismi e i ministeri, la sinodalità consente al Popolo di Dio di annunciare e testimoniare il Vangelo alle donne e agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, facendosi «sacramento visibile» (LG 9) della fraternità e dell’unità in Cristo voluta da Dio. Sinodalità e missione sono intimamente congiunte: la missione illumina la sinodalità e la sinodalità spinge alla missione.

Queste, dunque, le strade che il cammino sinodale intende farci percorrere: a) ritrovarci nei diversi ambiti ecclesiali, disporci ad ascoltare la Parola (ricordandoci così che siamo discepoli di un Dio da cui tutto ha avuto inizio, e non uomini e donne credenti che procedono da soli e per automatismi, confidando soltanto nel proprio sentire e pensare), “far incontrare” la Parola con la vita reale, discernere come da questo “incontro” possa emergere la volontà di Dio, accoglierla e disporsi ad attuarla; b) vigilare perché la nostra vita cristiana non coincida con lo “stiamo bene tra di noi” ma ci disponga ad essere in missione, e ancora più esattamente, come ha voluto scrivere Papa Francesco in Evangelii Gaudium 273:

La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare.

Il cammino sinodale servirà per aiutarci a ricordare che fra fede, appartenenza ecclesiale e missione, vi è una necessaria connessione, poiché queste tre polarità si alimentano a vicenda: se siamo sempre gli stessi, se vogliamo sentirci migliori degli altri (come realtà parrocchiale rispetto ad altri gruppi, come parrocchia rispetto ad altre parrocchie, come città o paese rispetto a chi vive in un altro comune), se – convinti della nostra unicità e del nostro “saper fare” – ci sentiamo così indispensabili da essere come un “tappo” che chiude l’accesso alla Chiesa ad altri che vorrebbero entrarvi magari con una sensibilità diversa dalla nostra, ecco, se siamo dentro queste dinamiche e non riusciamo ad uscirne, la sinodalità potrà essere la medicina che ci serve per guarire da questi mali, se non altro perché ci offre la possibilità di guarire insieme. Papa Leone (sempre nell’Udienza ai vescovi della C.E.I.) ci ha rivolto questa richiesta:

Innanzitutto, è necessario uno slancio rinnovato nell’annuncio e nella trasmissione della fede. Si tratta di porre Gesù Cristo al centro e, sulla strada indicata da Evangelii gaudium, aiutare le persone a vivere una relazione personale con Lui, per scoprire la gioia del Vangelo. In un tempo di grande frammentarietà è necessario tornare alle fondamenta della nostra fede, al kerygma. […] E si tratta di discernere i modi in cui far giungere a tutti la Buona Notizia, con azioni pastorali capaci di intercettare chi è più lontano e con strumenti idonei al rinnovamento della catechesi e dei linguaggi dell’annuncio.

La strada che percorreremo insieme, nel tempo che il Signore ci darà e con le dinamiche proprie della nostra Chiesa locale, si snoderà in alcuni bivi che le stesse Tracce per la fase attuativa del Sinodo ci propongono (riporto in questa Lettera alcune di esse perché possano offrire un’idea di massima circa l’itinerario da compiere insieme), vi si trovano – per ogni snodo – i riferimenti al Documento finale:

– la promozione della spiritualità sinodale (cfr. DF, nn. 43-46);

– l’effettivo accesso a funzioni di responsabilità e a ruoli di guida che non richiedono il sacramento dell’Ordine da parte di donne e uomini non ordinati, sia Laici e Laiche, sia Consacrate e Consacrati (cfr. DF, n. 60);

– la pratica del discernimento ecclesiale (cfr. DF, n. 81-86);

– la sperimentazione di forme appropriate di trasparenza, rendiconto e valutazione (cfr. DF, nn. 95-102);

– l’obbligatorietà nelle Diocesi e nelle Parrocchie degli organismi di partecipazione previsti dal diritto, e il rinnovamento delle loro modalità di funzionamento in chiave sinodale (cfr. DF, nn. 103- 106);

– lo svolgimento regolare di assemblee ecclesiali locali e regionali (cfr. DF, n. 107);

– il rinnovamento in chiave sinodale missionaria delle Parrocchie (cfr. DF, n. 117).

Mi rendo conto che un tale elenco potrà entusiasmare alcuni e preoccupare altri, ma vorrei fin da ora chiarire alcuni passaggi, di metodo e di contenuto, che penso facciano bene a tutti – anzitutto alla comunione in Diocesi – e che ho personalmente maturato in questi anni di avvio del cammino sinodale nei diversi ambiti (parrocchiale, diocesano, collegiale, nell’obbedienza al Santo Padre):

a) Il cammino sinodale mantiene inalterate le diverse responsabilità che i ministeri nella Chiesa assegnano a coloro che li assumono;

b) Si vivrà bene (il cammino sinodale) se coloro che vi partecipano non lo faranno con la convinzione di possedere la verità o che le loro idee siano più giuste di quelle degli altri;

c) Esso è anzitutto un’esperienza di obbedienza comunitaria allo Spirito e non un esercizio – pur lodevole – di democrazia;

d) Fa crescere la comunione, permette l’espressione dei carismi e non alimenta la divisione;

e) è una bellissima sintesi dell’incontro possibile fra il divino e l’umano, pertanto non sempre tutto diventa chiaro e viene poi assimilato dai partecipanti nei tempi previsti. Si possono manifestare blocchi, difficoltà, paure: tutto ciò va accolto e affrontato con pazienza, dandosi tutto il tempo che serve;

f) è mortificato dalle “polarizzazioni”, ovvero dalle rigidità circa posizioni che alcuni pretendono siano condivise da tutti e che inoltre non sono disposti a rivedere o addirittura a mettere da parte.

È lo stesso Papa Leone ad esortarci e confermarci in questa direzione:

Vorrei lasciarvi alcune esortazioni per il prossimo futuro. In primo luogo: andate avanti nell’unità, specialmente pensando al cammino sinodale. Il Signore – scrive Sant’Agostino – «per mantenere ben compaginato e in pace il suo corpo, così apostrofa la Chiesa per bocca dell’Apostolo: Non può dire l’occhio alla mano: non ho bisogno di te; o similmente la testa ai piedi: non ho bisogno di voi. Se il corpo fosse tutto occhio, dove l’udito? Se il corpo fosse tutto udito, dove l’odorato?» (Esposizione sul Salmo 130, 6). Restate uniti e non difendetevi dalle provocazioni dello Spirito. La sinodalità diventi mentalità, nel cuore, nei processi decisionali e nei modi di agire.

Pertanto camminare insieme (proprio questo è il significato letterale della parola sinodo) sulle vie della riconciliazione potrà essere addirittura favorito da ciò che la Chiesa universale chiede alla nostra Chiesa locale nel vivere concretamente la sinodalità: con il mese di settembre inizieremo i lavori per la costituzione del nuovo Consiglio presbiterale e del nuovo Consiglio pastorale diocesano, nelle Assemblee diocesane avremo l’opportunità di allinearci circa i comuni “blocchi di partenza” e nel corso dell’anno ci daremo l’opportunità di approfondire almeno alcuni degli “snodi” suesposti. La nostra equipe sinodale diocesana parteciperà ai lavori che a livello regionale e nazionale daranno poi vita ad un documento comune della Chiesa italiana sulla sinodalità.

Sono personalmente convinto che ciò che l’Apostolo Paolo ci ha lasciato in eredità attraverso il brano scelto per il nuovo anno pastorale, possa offrire a ciascuno di noi, nei diversi stati di vita, nuovi stimoli ed opportunità perché il nostro rendimento di grazie al Signore, sia sempre più fecondo e secondo la sua Parola.

La proposta vocazionale e di preghiera per la pace

Non possiamo fare a meno delle vocazioni, ma la nostra vita ordinaria nelle comunità cui apparteniamo è come se dicesse il contrario. La vocazione è una realtà costitutiva della vita ecclesiale, è un riferire a Dio, in una relazione di necessità, tutto ciò che siamo e mettiamo in opera. Nella Scrittura non vi è chiamato che sia stato scelto dal Signore per la sua “perfezione”: ogni suo limite corrisponde ad una specifica pedagogia di Dio perché la persona scelta non “faccia da solo”, non proceda in modo autoreferenziale.

La Diocesi di Ivrea ha bisogno di giovani che, ispirati da una vita comunitaria che riempie il cuore e dà senso all’esistenza, offrono la propria vita al Padre perché attraverso di loro si continui ad annunciare la vittoria di Cristo sul male e sulla morte. Egli ci ha poi promesso lo Spirito perché la sua opera continuasse attraverso di noi. Ogni volta che ho partecipato agli incontri promossi dall’Ufficio di Pastorale giovanile della Diocesi, ho sempre ribadito che non vi è pastorale giovanile che non sia in sé vocazionale. Non possiamo procedere senza renderci conto che le vocazioni vanno chieste, e se non lo facciamo è perché ci muoviamo in una prospettiva intrisa di immanenza e pragmatismo autoreferenziale. Vorrei ricordare a tutti che almeno per il momento non abbiamo seminaristi (anche se va detto che alcuni giovani stanno mostrando un sincero orientamento verso il sacerdozio e chiedono di essere accompagnati), gli istituti femminili presenti in Diocesi soffrono la mancanza di giovani che si sentano chiamate alla vita religiosa, infine tante coppie stanno scegliendo la convivenza come via preferenziale per dirsi “ho scelto te, ti amo” (anche oppresse dalla mole di spese e di incombenze a cui abbiamo ormai culturalmente connesso il sacramento del matrimonio). Se preghiamo per le vocazioni non possiamo farlo immaginando che esse emergano più o meno casualmente “come funghi”: suggerisco a tutti coloro che vorranno ascoltare questo appello, di pregare per le vocazioni pensando anche ai giovani della propria famiglia, ai propri nipoti, ai propri figli: questa sarà una vera preghiera per le vocazioni, perché nella Chiesa non vi è preghiera che non corrisponda ad una consegna, ad un «eccomi, manda me!». È necessario che dalla nostra Chiesa locale “emergano” ancora giovani che vogliono dedicare la vita ad annunciare che Cristo è risorto, che in Lui ogni disperazione è vinta ed ogni vita si riempie di senso. Per aiutarli e sostenerli in questa bellissima ricerca abbiamo immaginato il Cammino vocazionale rivoltoaragazzi/edallaterzasuperioreinsu,cheavrà la sua sede presso il Tempio dell’Immacolata di Ivrea, poiché «non essersi mai udito al mondo che alcuno abbia ricorso al tuo patrocinio o Maria, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato». Come dicevo ogni componente della nostra Chiesa di Ivrea dovrà partecipare a questa comune richiesta di grazia, pertanto chiedo che, dovunque i ministri possano, si dedichi un’ora di adorazione al giovedì per le vocazioni, insieme ad un’intenzione stabilmente collocata fra le preghiere dei fedeli della domenica.

Altra intenzione che non possiamo omettere nelle nostre preghiere è quella per la pace. Scrivo questa lettera nella memoria della Beata Vergine Maria Regina: Papa Leone ha chiesto di dedicare questo giorno alla preghiera e al digiuno per la pace, ed è sempre il Santo Padre a chiederci di acquisire un più pacifico stile di vita:

La relazione con Cristo ci chiama a sviluppare un’attenzione pastorale sul tema della pace. Il Signore, infatti, ci invia al mondo a portare il suo stesso dono: La pace sia con voi!”, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione. L’apostolo Paolo ci esorta così: «Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18); è un invito che affida a ciascuno una porzione concreta di responsabilità. Auspico, allora, che ogni Diocesi possa promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro. Ogni comunità diventi una della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa.

Ho già avuto modo di riferirmi a questo testo nell’omelia della Festa di san Savino: sono “parole chiare” che non differiscono la necessità di assumere già qui ed ora e nelle nostre comunità stili di vita ispirati alla nonviolenza, al perdono e alla riconciliazione, ed è stata – questa del Papa – un’altra fonte d’ispirazione della presente Lettera. Anche alla preghiera per la pace vorrei si dedicasse stabilmente un’intenzione domenicale e l’adorazione del giovedì.

Ai sacerdoti e ai diaconi della Diocesi

Avoi, principali collaboratori del vescovo, vorrei proporre alcune riflessioni specifiche. Ho scelto di farlo nel contesto di questa Lettera poiché ritengo siano parole che è bene siano ascoltate anche da tutti/e coloro cui state donando la vita.

Nella “lettera della riconciliazione” Paolo si esprime offrendo tanta consolazione ai nostri cuori, ristorandoli come solo la Parola di Dio sa fare:

Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. (2Cor 1,9)

Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono “sì”. Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria. (2Cor 1,20)

Proprio questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita. (2Cor 3,4-6)

Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. (2Cor 4,5-7)

Vorrei che queste parole dell’Apostolo le sentiste come rivolte a voi, come un grazie, una ricompensa, una via per ricomprendere il ministero riconoscendo che tutto ciò che abbiamo vissuto intimamente è servito per dare ora a noi parole chiare che siano d’aiuto a coloro cui il Signore ci invia. Vorrei che ogni nostra debolezza, ogni “depotenziamento” delle nostre risorse umane possa esser letto come un’occasione propizia per riporre solo in Colui che risuscita dai morti la nostra fiducia (2Cor 1,9). Tutte le promesse di Dio sono divenute “sì” in Gesù Cristo (2Cor 1,20): quanto profitto nel verificare che la nostra fede sia radicalmente cristologica, nel dirci che Cristo ha vinto e ha portato sul legno della croce ogni nostra morte. La nostra vita rimane un mistero a noi stessi: tanti imprevisti che la toccano, tanti eventi che la segnano, sfuggono dalla nostra umana comprensione, ed è allora che in particolar modo noi “ministri dello spirito” siamo chiamati a lasciare i domestici e tranquilli approdi in cui vorremmo trovare dimora, e legarci sempre più profondamente a Lui che nella sua Pasqua ha raccolto e compendiato tutto ciò che a noi rimane misterioso e incomprensibile, ciò che ci sfugge e che non possederemo mai, includendo in questa dinamica tutto ciò che vorremmo essere e non siamo, vorremmo vivere mentre non ci è dato (2Cor 3,4-6). «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»: come leggere queste parole nella prospettiva del ministero ma, ancor prima, come leggerle per noi? Vi propongo di interpretarle come una Parola che può togliere “l’affanno del dovere” dai nostri giorni, e lo farei con una domanda: ci stiamo dando l’opportunità di ascoltare il nostro bisogno di pace e di riposo? Perché vedete, “la lettera” corrisponde al ministero vissuto sempre in risposta ai nostri doveri e alle aspettative degli altri, lo “Spirito” corrisponde a quel renderci conto della nostra piccolezza, custodendola e non sottoponendola a continue forzature («abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» 2Cor 4,7), ricordandoci che i frutti saranno ben più copiosi se lasceremo passare lo Spirito nei nostri giorni e non la nostra autodeterminazione, e soprattutto se tali frutti saranno quelli di cui l’Apostolo ci ha lasciato un elenco in Galati 5,22. Se al contrario procederemo col “pilota automatico” delle abitudini, dei doveri, delle aspettative altrui, porteremo frutti secondo la carne e non avremo più lo sguardo attento per accorgercene, ci basterà aver fatto il nostro dovere, aver vissuto il “ministero secondo la lettera” senza ricordarci cosa significhi essere «ministri della nuova alleanza» (2Cor 3,5).

Questi passaggi della Seconda Corinzi, che precedono il nostro testo, possono aiutarci nell’interpretarlo e nel lasciare che esso vada al cuore anche delle nostre relazioni, delle relazioni fra presbiteri, fra presbiteri e diaconi, e interne alla comunità diaconale.

Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. (2Cor 5,18-19)

Figli, fratelli, è necessario «non guardarci più alla maniera umana» (2Cor 5,16a): umanamente ci chiediamo la perfezione, oppure viviamo “affossati” dalla nostra evidente e pervasiva imperfezione. Proviamo a partire da noi anzitutto per guardarci come ci guarda il Figlio, che in comunione con il Padre ci chiede ogni giorno di consegnare a Lui la nostra imperfezione perché la inchiodi ancora una volta sul legno della croce, e tolga dalle nostre spalle il carico che siamo abituati a portare (troppo spesso) da soli. Questo è l’unico modo che abbiamo per vivere riconciliati, per vivere da redenti, e non vi è terapia che possa arrivare così in profondità, che possa essere così efficace. Se guardarci secondo il mondo comporterebbe il negare o il combattere strenuamente la nostra imperfezione20, guardarci secondo la redenzione apportata da Cristo sarà il necessario punto di partenza per ricordarci che ci è stato affidato “il ministero della riconciliazione” che non coincide soltanto con l’essere annunciatori del perdono e di una rinnovata comunione21, ma anche ponendo fine al combattimento con quella parte di noi che non ci piace o che ci fa paura: infatti quella medesima parte non ci appartiene più, è sul legno della croce.

È necessario che noi ministri, prima di annunciarlo, torniamo a sentirci davvero e intimamente “nuove creature”. Perché questo possa accadere servirà custodire il tempo, fermare il susseguirsi vorticoso degli impegni e riservare un tempo adeguato al riposo, al silenzio, all’orazione, scegliendo di allontanarci per qualche giorno dai contesti abituali della pastorale, ritrovando (anche per noi) il gusto e la bellezza del sacramento della Penitenza, altrimenti diremo parole umane, parole che sappiamo giuste, ma che non hanno avuto bisogno di essere attraversate dal Vangelo per essere pronunciate, parole che non hanno il sapore della grazia ricevuta gratis e ancora presente nelle nostre vite. A tal fine la proposta diocesana delle due opzioni per gli Esercizi spirituali, dei giorni di fraternità a Camaldoli, dei ritiri e degli incontri di formazione per i quali sollecito la partecipazione di tutti, ma che non esauriscono la necessità che ciascuno di noi trovi degli spazi specifici per questo. È ancora papa Leone XIV a manifestarci la sua cura paterna in questo ambito così prezioso del nostro ministero:

Anzitutto, la formazione è un cammino di relazione. Diventare amici di Cristo significa essere formati nella relazione, non solo nelle competenze. […] Solo chi vive in amicizia con Cristo ed è permeato del suo Spirito può annunciare con autenticità, consolare con compassione e guidare con sapienza. Questo richiede ascolto profondo, meditazione, e una ricca e ordinata vita interiore.

In secondo luogo, la fraternità è uno stile essenziale di vita presbiterale. Diventare amici di Cristo comporta vivere da fratelli tra sacerdoti e tra vescovi, non come concorrenti o da individualisti. La formazione deve allora aiutare a costruire legami solidi nel presbiterio come espressione di una Chiesa sinodale, nella quale si cresce insieme condividendo fatiche e gioie del ministero. Come, infatti, noi ministri potremmo essere costruttori di comunità vive, se non regnasse prima di tutto fra noi una effettiva e sincera fraternità?

Infine, tornando al testo paolino da cui siamo partiti:

Per mezzo nostro è Dio stesso che esorta (2Cor 5,20a)

«Come vari commentatori fanno notare, in questo brano Paolo vuole anche mostrare che la riconciliazione con Dio di cui si parla è strettamente legata al riconoscimento del ministero di mediazione affidato all’apostolo e ai suoi collaboratori».

Solo accogliendo questi necessari presupposti riusciremo a non imputare più al fratello le colpe del passato, potremo non più farlo coincidere con i suoi errori, potremo sostenerci e camminare insieme, in letizia, non come ministri della condanna, ma della giustizia.

Nella memoria della Beata Vergine Maria Regina

22 agosto 2025

 + Daniele Salera

Vescovo di Ivrea

22-08-2025