Quando con il Vescovo Edoardo abbiamo definito la data per l’ingresso in Diocesi, non eravamo a conoscenza dei testi che ci avrebbe offerto la Liturgia di questa domenica. Li accogliamo ora, nella loro bellezza ma anche nella chiarezza con cui ci parlano. Riconosco come un dono che in questa celebrazione, inizio del ministero episcopale nella Diocesi di Ivrea, il Signore metta davanti al mio cammino un testo come quello di Geremia: è un segnale chiaro per me, decifrabile.
Su queste parole si plasma un credo, un atteggiamento, una visione, uno stile, una scelta, una disciplina del pensare e dell’agire. La Scrittura più volte mostra come il popolo credente e coloro a cui il Signore ha affidato una missione siano stati invitati a fidarsi. Pensiamo ad Abramo, accetta di lasciare tutto fidandosi delle promesse di Dio, pensiamo a Mosè che non dovrà dar peso alla sua balbuzie e al ricordo del crimine commesso per dire il suo sì al Signore, ma anche a Isaia domenica scorsa: si fiderà di più del tizzone ardente che ha purificato le sue labbra che della consapevolezza di essere un uomo dalle labbra impure. E ancora Giosuè: demolirà le mura di Gerico con un rito che assomiglia più ad una liturgia che ad un assalto; Gedeone dovrà ridimensionare in modo impressionante il suo esercito prima di vincere la battaglia. Il tutto perchè ogni chiamato sia consapevole che non sarà la sua forza a procurargli la vittoria o a permettergli di raggiungere gli obiettivi della missione che il Signore gli affida, ma solo il suo pieno abbandono in Dio.
Nel Nuovo Testamento questo “riporre la propria fiducia nel Signore” è passato, prima dai rimproveri che Gesù ha rivolto agli apostoli, poi dai patimenti cui la Provvidenza divina li ha sottoposti. Sono stati chiamati – lo abbiamo ascoltato proprio domenica scorsa – fidandosi della Sua Parola e abbandonando tutto. Questo doppio movimento ci provoca ad una conversione dell’intelletto e della volontà che si compone di due passaggi congiunti: riporre la nostra fiducia in ciò che Dio dice a noi, significherà anzitutto divenire via via più capaci di comprendere la Parola (con l’intelletto appunto ma direi soprattutto con l’arte del discernimento dei segni con cui Egli comunica a noi il suo volere) ed in secondo luogo (e qui entra in gioco la volontà), sceglierla come àncora per non farsi portar via dalle correnti, luce per affrontare anche la tenebra più oscura, traccia per un sentiero che porta alla vetta! A questo punto – se abbiamo ben capito quanto centrale sia questo passaggio – la Parola (o più generalmente la modalità con cui il Signore ci sta parlando) può divenire la mia roccia, il mio scudo, e dunque posso sceglierla come unico segnale da seguire, addirittura credendo che essa mi offra “una verità molto più vera” di quelle verità che la mia mente, i miei affetti, i miei ricordi e i miei schemi mi hanno offerto finora. Così ripongo la mia fiducia in Dio e non più in me, come gli apostoli che si sono fidati e hanno lasciato tutto (tutte le modalità con cui finora avevano interpretato la vita) per seguirlo (per seguire ciò che la sua Parola nello specifico gli aveva comunicato).
Ma come dicevamo, per riporre in Dio la fiducia alla maniera degli apostoli vi è anche un’altra strada da seguire (non alternativa alla prima): quella della frantumazione dell’io attraverso le prove che conducono all’umiltà. È qui che la nostra sequela diviene sempre più “cristiforme”, poiché siamo stati sottratti al dominio del Male da Colui che pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che ha patito, e attraverso questa via ci ha redenti. Fratelli, sorelle, la nostra partecipazione all’opera redentiva del Cristo ha bisogno che si “depotenzi la nostra potenza” perché effettivamente possiamo – come i Vangeli ci rammentano – andare dietro a Lui e non stargli davanti. Noi torneremo a porre in noi stessi o nei surrogati delle nostre certezze la nostra fiducia se non accettassimo di avere, non una volta ma stabilmente “un tesoro in vasi di creta” (2Cor 4,7): accettare pian piano – ma liberamente – di diventare piccoli, di abbandonare il desiderio di onnipotenza, attraverso tutto ciò che nella vita ci destabilizza.
Ricevere questa Parola, in questa particolare celebrazione, significherà accettare liberamente che questo servizio episcopale e il cammino che compiremo insieme sia benedetto dalla confidenza in Dio perchè il Signore è – e vogliamo che sia – nostra fiducia. Accettare liberamente di attraversare tutto ciò che è debolezza perché si manifesti in noi la Sua potenza poiché: “la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18).
Consideriamo inoltre che il ministero del vescovo, per quanto debba necessariamente mettere in conto la solitudine e l’incomprensione, per sua natura non ha radici in esse, il ministero del vescovo ha bisogno della comunione con il Santo Padre, con il Collegio dei Vescovi, con la Chiesa locale che gli è affidata e – in particolare – con il suo presbiterio e la comunità dei diaconi. In questa comunione ha il suo stato naturale. Essa non si costruisce sulla simpatia umana o sulle affinità naturali, ma sul sacramento dell’Ordine, sul comune ascolto della Parola, sull’intercessione reciproca, sulla celebrazione eucaristica; fra i riti che la compongono in particolare vorrei menzionare l’immixtio, il momento in cui chi presiede mette nel calice che raccoglie il Sangue di Cristo, un frammento del suo Corpo.
Anche i santi ci ricordano della necessità di questa comunione, e quando vi penso mi rendo conto che è veramente un bene sommo e necessario, da desiderare intensamente, da cercare come un tesoro che è nostra eredità, ma che va dissotterrato in continuazione dalla coltre delle abitudini, delle delusioni, delle disillusioni, delle idealizzazioni e della via mondana per raggiungerlo, quella della simpatia e delle affinità. Così scriveva il martire Ignazio di Antiochia ai Magnesii:
VII,1. Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno, né da solo né con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri. Né cercate che appaia lodevole qualche cosa per parte vostra, ma solo per la cosa stessa: una sola preghiera, una sola supplica, una sola mente, una sola speranza nella carità, […].
E ancora agli Efesini:
- […] Dalla vostra unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo. […] È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio.
Su questo argomento negli anni del servizio in Seminario, amavo meditare un passaggio della Pastores Dabo Vobis 12:
[…] Il presbitero, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell’Ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo. Si può così comprendere la connotazione essenzialmente « relazionale » dell’identità del presbitero: mediante il sacerdozio, che scaturisce dalle profondità dell’ineffabile mistero di Dio, ossia dall’amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell’unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il Vescovo e con gli altri presbiteri, per servire il Popolo di Dio che è la Chiesa e attrarre tutti a Cristo […]. Non si può allora definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.
Dànno ristoro allo spirito le parole “unità” e “comunione” le ha usate il martire Ignazio, le si ritrova nell’esortazione di Giovanni Paolo II, le si vede qui in quest’eucaristia che ci ispira a desiderarle, le si nota nella presenza del Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, in quella del Metropolita, nei vescovi che prima di me hanno offerto se stessi per questa Diocesi, nei fratelli della Conferenza Episcopale di Piemonte e Valle d’Aosta. Tutto ciò che questa Liturgia ci fa vedere, ora siamo invitati a viverlo per rimanere discepoli e non protagonisti, per ricordarci che quest’opera non è iniziata e non finirà con noi, per contemplare con i nostri occhi cosa fa la grazia quando la si lascia agire nella nostra storia.