Messaggio alla Diocesi per l’Avvento 2019

C’è un canto liturgico che ancora mi trasmette, come nessun altro, il clima ed il senso dell’Avvento, la breve, intensa stagione liturgica che precede il Natale e ci ripropone i grandi fondamenti della fede cristiana.

Lo sentivo cantare in chiesa, questo canto, quando ero bambino, prima della Messa del mattino – Torino, anni ’50 – e la sua melodia mi è rimasta impressa. Non capivo le parole, che erano in latino; ma forse non le avrei capite neppure se fossero state in italiano; era la melodia a farmi percepire che eravamo in Avvento, che ci si preparava al Natale, e per questo si andava a Messa anche nei giorni feriali, prima della scuola, mentre era ancora scuro. La gente – la semplice gente della chiesa “della Pace”, in Barriera di Milano – cantava solo il ritornello; erano i sacerdoti – i Padri Oblati del Lanteri – che cantavano le strofe… Il Padre a cui eravamo affidati noi bambini dell’Oratorio ci disse un giorno che «Rorate Cœli desuper, et nubes pluant justum» significava «Oh cieli, fate scendere la vostra rugiada e le nubi piovano il Giusto». Neppure di queste parole italiane credo di aver capito allora il significato… Ma esse volevano dire che era l’Avvento, che sarebbe arrivata la Novena di Natale, e che noi dovevamo cercare di “stare più buoni” per aspettare Gesù Bambino… Quella melodia diceva tutto questo. E credo lo dicesse anche agli adulti, quella semplice gente “dla Pas” che di latino ne sapeva quanto me.

Ora qualcosa di più, forse, ho capito. «Rorate Cœli desuper, et nubes pluant justum» è una invocazione che la bellezza della melodia rende ancor più struggente: nella prima parte con le sue note alte pare un grido, e nella seconda evoca il cadere di una intensa pioggia benefica.

Chi grida è l’uomo, l’unico essere terreno che si percepisce incompiuto, sempre mosso dal desiderio di qualcosa di più, anche quando ha realizzato ciò che voleva; sempre alla ricerca di una pienezza che sente di non avere…

A fargli percepire questo bisogno, che è il bisogno di felicità piena, tutto coopera, ma cooperano particolarmente il dolore, la fatica, l’incomprensione da parte degli altri, la difficoltà che egli stesso prova nei confronti degli altri, le situazioni storiche – che tanto incidono sulla sua vita personale – e quelle personali che spesso lo limano… E l’uomo, dentro a questa situazione, se non si chiude in una corazza nel tentativo di proteggersi, percepisce che il suo cuore, le profondità del suo essere, grida la propria necessità, esprime la sua sete di “qualcosa” che, magari, non sa definire, ma di cui sente l’arsura…

Per sua natura l’uomo è desiderio, è attesa.

Sta qui il “cuore” dell’uomo: in questa esigenza di infinito, che è poi l’esigenza connaturata di felicità, di pienezza; esigenza di totalità che è anche la ragione dell’uomo.

All’uomo in questa sua condizione di bisogno esistenziale che cosa annuncia il cristianesimo?

Esattamente ciò che dice quel canto: che la risposta a questo grido c’è, e che la risposta scende dall’alto come una rugiada, come un’acqua benefica.

La salvezza – poiché di questo si tratta! – non è prodotta dall’uomo: è un dono che giunge invocato! E il dono è Gesù Cristo, il Dio che «discese dal cielo» e che abita con noi nel Suo corpo di uomo, nella sua vera umanità indissolubilmente unita alla divinità!

E’ Lui “il Giusto” che il “Rorate” ci fa invocare: è Lui la pienezza che colma il desiderio dell’uomo.

Gesù Cristo è la soluzione vera al problema fondamentale dell’uomo, ma è indispensabile che l’uomo invochi: «Rorate Cœli desuper, et nubes pluant justum»: fate scendere, o Cieli, la vostra rugiada, e dall’alto il Giusto scenda come pioggia ristoratrice: una invocazione che sembra sempre più estranea alla cultura dell’uomo del nostro tempo, convinto che in tutte le situazioni lui da solo possa risolvere i suoi problemi…

Si sta offuscando, spesso fino a scomparire, la convinzione che una bella Mostra di qualche anno fa sulle realizzazioni dei monaci benedettini esprimeva con queste parole: «Con le nostre mani, ma con la Tua forza, Signore!»: con le nostre mani, poiché l’uomo ha il proprio compito e lo deve svolgere, ma con la Tua forza, poiché la forza vera non è quella dell’uomo, ma quella di Dio: la forza dell’Amore infinito con cui Dio viene incontro all’uomo dicendogli: «Consolatevi, consolatevi, o popolo mio! Perché ti consumi nella mestizia, mentre il dolore ti ha rinnovato? Ti salverò, non temere, perché io sono il Signore Dio tuo».

La consolazione che Dio porta non è l’illusione in cui spesso l’uomo cerca di rifugiarsi per difendersi dal dolore; è la reale possibilità di uscire dalla “mestizia” che lo consuma, la possibilità reale di guardare in faccia virilmente il dolore in tutte le sue espressioni: «Innovávit te dolor» dice Dio: il dolore ti ha rinnovato…

Il dolore è dolore, lo sappiamo, le ferite fanno male e bruciano, ma c’è qualcosa che supera, va oltre questa situazione: c’è quel rinnovamento che la Grazia di Cristo opera in chi vive guardando in alto e gridando a Dio il bisogno di salvezza. Il più terribile sbaglio è guardare a se stessi senza guardare al Salvatore che viene a realizzare con noi ciò che noi, da soli, non siamo in grado di fare!

Buon Avvento, Fratelli e Sorelle!

Le prime due settimane ci preparano ad accoglierLo nella Sua venuta gloriosa alla fine dei tempi e orientano a questo incontro definitivo tutta la nostra vita attraverso la consapevole accoglienza della Sua Presenza nell’oggi di ogni giorno; gli ultimi nove giorni – quelli della “Novena” – ci preparano a rivivere la prima venuta, il Suo Natale mettendo i nostri passi su quelli dei pastori che “si dicevano l’un l’altro: andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che Dio ci ha fatto conoscere” (Lc, 2,15).

Con il canto delle Profezie, l’ascolto della Parola di Dio e gli stupendi testi delle antifone “O” siamo guidati a rinnovare il nostro stupore davanti al fatto che dà inizio alla storia nuova, la nascita del Figlio di Dio diventato Uomo nel grembo della Vergine-Madre.

Vivere il Natale del Bimbo-Dio è prendere sul serio l’impegno che da esso deriva: una testimonianza di fede nella sacralità della vita – dal suo sorgere al suo tramonto – che passa anche attraverso gesti concreti di solidarietà verso chi, in tanti modi, è nel bisogno. Ma è indispensabile che la nostra condivisione abbia radici che la sostengono e la nutrono.

Invito tutti a partecipare nelle nostre chiese alla celebrazione della Novena, e a continuare, nelle case e altrove, la bella tradizione del presepe, pubblica testimonianza della nostra fede offerta attraverso un semplice gesto che ci aiuta ad entrare nella dimensione del “bambino” evangelico a cui è aperto l’ingresso nel Regno di Dio

Sentiamo fremere dentro di noi un bisogno di novità di fronte alla vecchiezza che tutto afferra: vecchiezza nel modo di pensare, di guardare alla realtà, di affrontare la vita, i problemi della società e quelli della Chiesa che vive nel mondo, ma non è di questo mondo…

A Betlemme si arriva camminando, facendo dei passi, partendo da dove realmente si è, guardando in faccia la concreta situazione della nostra vita, quella spirituale innanzitutto, e percorrendo una strada che Dio stesso traccia.

Passi.

– Il Figlio di Dio, il vero Protagonista dell’avvenimento, arriva a Betlemme da molto lontano: dagli abissi dell’amore trinitario, dalla gloria delle “Altezze”…La strada per Betlemme è, per Lui, quella dell’exinanivit semetipsum, della spogliazione di sé.

– Maria e Giuseppe ci arrivano partendo da Nazaret: la loro è la strada della fede.

– I pastori ci arrivano da quei campi dove vegliavano sui loro greggi, facendo la guardia di notte… La loro è la strada della speranza…

– I Magi ci arrivano partendo “da Oriente”. E’ la strada della ricerca che giunge là dove si piegano le ginocchia nell’adorazione di Colui che ci è offerto in dono per farci capaci di donare noi stessi.

+ Edoardo, vescovo

28-11-2019