Ho negli occhi l’immagine di san Giovanni Enrico Newman sulla facciata della Basilica di S. Pietro: ritratto con il suo abito filippino, mentre pensavo di vederlo nella porpora cardinalizia; e la cosa mi ha fatto immensamente piacere. Con lui – ai suoi lati – quattro donne, tutte, eccetto una, sue contemporanee e vissute in luoghi diversi (Europa, Asia, America Latina), espressione del cammino della Cattolica Chiesa nello spazio, oltre che nel tempo: santa Giuseppina Vannini (Roma 1859-1911), fondatrice delle Figlie di S. Camillo de Lellis per l’assistenza degli infermi; santa M. Teresa Chiramel Mankidiyan (Kerala 1876-1926), dedita all’apostolato della Famiglia, l’educazione delle ragazze e la cura dei malati; santa Dulce Lopes Pontes (Salvador de Bahia, Brasile 1914-1992), dedita, tra le Missionarie dell’Immacolata, ad assistere materialmente e spiritualmente gli abitanti della favela di Alagados; santa Margarita Bays (Siviriez, Cantone svizzero di Friburgo 1815-1879), mai entrata in una Congregazione religiosa e sempre dedita ad una intensa vita di preghiera, servì materialmente e spiritualmente i suoi familiari e gli abitanti del villaggio, mantenendosi con il lavoro di sarta.
Che ci fa tra queste sante donne, per lo più semplici e dedite al servizio della carità, il grande Newman, teologo, letterato, poeta, scrittore, intellettuale di prim’ordine, persino cardinale di S. Romana Chiesa dal 1879 alla morte nel 1890, in riferimento al quale Papa Benedetto disse: «Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme»?
A parte il fatto che l’alto livello intellettuale, lo studio e la ricerca non lo hanno reso un uomo di soli libri, ma, come prete dell’Oratorio, anche da cardinale, si dedicò intensamente al servizio pastorale («Visse il ministero sacerdotale – ricordò Papa Benedetto – nella devota cura per la gente di Birmingham [nel periferico quartiere operaio di Egbaston, volutamente scelto da lui per impiantare l’Oratorio], visitando i malati e i poveri, confortando i derelitti, prendendosi cura di quanti erano in prigione»), la presenza di Newman tra queste “Sante della carità” ci ricorda che senza la profonda e fedele adesione alla Verità – il depositum fidei, la integra dottrina della Chiesa – la carità può trasformarsi in filantropia, un umanesimo che, a ben guardare, mostra il volto di un povero antropocentrismo. «Sono consapevole – scrive Papa Benedetto nella sua prima enciclica – degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione della “veritas in caritate”, ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nella “economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. Solo in questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità… Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta».
Lungo l’intera sua vita, come tutti gli autentici santi, Newman pensò di essere ben lontano dall’esserlo: «Non sono portato a fare il santo – diceva – mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe». Il suo impegno, in realtà, fin dall’età di 15 anni, nel 1816, il tempo della sua “prima conversione”, fu vissuto alla luce di quanto aveva letto ed accolto come motto della sua esistenza: “La santità piuttosto che la pace”: cercò, da quel momento, di svelare ogni tipo di pace falsa, di seguire la verità in modo incondizionato e di condurre una vita improntata al Vangelo. E la carità che egli visse è la stessa vissuta da santa Dulce nella “favela” di Alagados, da Giuseppina Vannini al letto degli infermi, da Maria Teresa tra le famiglie povere, da Margarita, laica, che serviva nel suo villaggio e si manteneva facendo la sarta.
† Edoardo, vescovo