Carissimi Fratelli Vescovo Luigi, Sacerdoti e Diaconi,
carissimi Fratelli e Sorelle, sia lodato Gesù Cristo!
«Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”» (Lc, 4, 16-19).
Quello che Gesù legge è il passo del profeta Isaia, il “Secondo Isaia”, affermano gli esegeti. Il Primo era vissuto nell’VIII secolo a.C., un tempo di forti tensioni sociali e politiche durante le quali Israele era sotto la costante minaccia di una invasione assira, e il profeta denunciava il degrado morale portato dalla prosperità del paese e annunciava un Salvatore; il “Secondo Isaia”, a cui si attribuisce il passo di oggi (Is 61,1-3.6.8b-9), scrive invece attorno al 538 a. C., l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, permise agli Ebrei esiliati a Babilonia di ritornare al loro paese: un piccolo «resto» che avrebbe dovuto vivere un nuovo esodo, bisognoso perciò di consolazione dopo la desolazione patita.
Gesù legge quel testo profetico e si presenta come il compimento della promessa: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». È Lui il Salvatore!
Oggi è allora, ma poiché chi parla a noi è il Risorto, vivo e presente tra noi, quello che disse allora è parola che pronuncia anche oggi, nel giorno e nel tempo in cui noi viviamo. Il Salvatore è Lui!
Le situazioni storiche conoscono sempre delle varianti, ma, in fondo, non sono molto diverse di epoca in epoca… Quella evocata dai profeti Isaia fa luce dunque anche sulla nostra, compresa quella ecclesiale, di fronte alla quale non possiamo fare a meno di riconoscere l’urgenza di un deciso cambio di passo, un esodo che ci faccia uscire dalla schiavitù e dal deserto.
Guardando ai nostri peccati e alle nostre deficienze, guardiamo, a questa luce, anche al “cammino sinodale” che la Chiesa ci propone come occasione dell’«improrogabile rinnovamento ecclesiale» di cui parla Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (27): la «dinamica – dice – dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre» (21).
Parlando alla Chiesa di Roma il Santo Padre ha detto: “Celebrare un Sinodo è veramente proficuo se esso diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera». E mette in guardia da tre rischi: il formalismo, che riduce il cammino sinodale a un evento di facciata; l’intellettualismo: il «farlo diventare una specie di gruppo di studio, con interventi astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di “parlarci addosso”»; e l’immobilismo: «il rischio che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi». Senza lo Spirito Santo, invocato nella preghiera ed accolto nella Sua luce, tutto diventerebbe «un gioco delle parti» e la consultazione del Popolo di Dio, che costituisce il primo momento del cammino sinodale, «finirebbe per ridursi a un sondaggio di opinione, costringendo il sensus fidei del Popolo di Dio dentro i meccanismi dell’opinione pubblica».
Parlando della fase che coinvolge le chiese locali – e che in Italia durerà ancora due anni, dopo che in questo sono state coinvolte soprattutto le Parrocchie e le comunità – il relatore al Sinodo dei Vescovi, ha osservato: «Il momento istituzionale è solo propedeutico a un cambiamento esistenziale. Si tratta di riflettere insieme, come comunità credente, sullo stile del nostro essere cristiani, sulle modalità che danno forma al nostro essere discepoli del Signore…».
Mi sembra che meriti soffermarsi su questa sottolineatura: «Il momento istituzionale è solo propedeutico a un cambiamento esistenziale…». In un buon numero di Parrocchie, pur nella difficoltà della situazione sanitaria, il lavoro svolto in incontri di comunità e di categorie, se vissuto in questo modo, è stato sicuramente prezioso ed ora le relazioni di esso sono state consegnate alla Diocesi. Ma l’impegno non finisce qui se ci sta a cuore – più che il momento istituzionale – l’amore alla Chiesa e la responsabilità che abbiamo, Laici e Pastori, nella missione di annunciare Cristo all’uomo del nostro tempo, costruendo, ognuno nella propria parte, delle comunità, anche se piccole, in riferimento alle quali si possa dire: “Vieni e vedi”!
È indispensabile, in chi ancora c’è, un profondo rinnovamento. Chi non riconosce, almeno a parole, il valore del dialogo, del confronto, della collaborazione, della fraternità? La questione è se siamo disposti ad impostare la vita non concentrando su noi stessi la nostra attenzione, il nostro interesse, ma aprendoci realmente all’altro. Dobbiamo chiederci, Pastori e Laici, ognuno nel suo ambito, se alla base ci sono relazioni, rapporti sanamente umani: generosità, discrezione, lealtà, sincerità, capacità di parlare ma anche di tacere quando la parola è inopportuna o dannosa; se c’è il desiderio e l’impegno di ascoltare e di confrontarci; e se la carità è vera (come cantiamo nell’Ubi caritas)
Questi rapporti, sempre intaccati dalla nostra fragilità e dagli effetti del peccato originale, esigono un cammino di maturazione umana in cui l’aiuto della Grazia è indispensabile, ma non fa tutto Dio: cammino lungo, certamente, un esodo faticoso, in assenza del quale le nostre comunità, sempre più piccole numericamente e più vecchie anagraficamente, presentano un volto che vediamo delineato nella Evangelii gaudium, che ho citato nella Lettera pastorale di quest’anno e sui quali tutti, vescovi, preti e laici, siamo chiamati ad esaminarci: «Tre mali si alimentano l’uno con l’altro: una accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore» che portano «ad attaccarsi a spazi di potere e di gloria umana, invece di dare la vita per gli altri nella missione».
È la carità vera a generare la concordia che non è uniformità in ciò che è opinabile, ma la volontà di raggiungere insieme, pur partendo da punti di vista anche diversi, ciò che il discepolo di Cristo, alla luce del Vangelo, deve volere. «Unio voluntatum – dice san Tommaso – non unio opinionum».
Rimane tra le nostre mani, in tutto il suo valore, anche per il “cammino sinodale”, l’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” (20.07.2020), dove si legge, tra l’altro: «La conversione delle strutture, che la parrocchia deve proporsi, richiede “a monte” un cambiamento di mentalità e un rinnovamento interiore, soprattutto di quanti sono chiamati alla responsabilità della guida pastorale».
Ciò che dobbiamo volere è di essere santi; che Cristo sia il centro della nostra vita, delle nostre scelte, dei nostri desideri. Tutto il testo viene di conseguenza. Prima di tutto c’è Cristo e senza di Lui niente!
Buon cammino, Fratelli e Sorelle!
Sia lodato Gesù Cristo!