Stemma episcopale
STEMMA assunto da S.E.R. Mons. Daniele SALERA, Vescovo di Ivrea.
Nel 1° quarto della composizione araldica, su campo di rosso, colore che richiama in maniera diretta il fuoco dello Spirito Santo (At 1,3-4; cfr. Lc 3,16), tanto da essere il colore liturgico della Domenica di Pentecoste, si innalza la figura di una colomba, notissimo simbolo di derivazione evangelica dello Spirito Santo (Mt 3,16-17; Mc 1,10-11; Lc 3,22; Gv 1,32). La colomba è nimbata con un’aureola crociata d’oro, a significare che lo Spirito è il dono di Cristo Crocifisso e Risorto, lo Spirito che porta la presenza di Lui nel cuore e nella vita dei credenti, e che rende ogni cristiano e la Chiesa lo spazio vivo e vitale in cui il mistero pasquale continua a essere attualizzato, nell’esercizio concreto della carità, che poi è l’amore divino riversato nei cuori per mezzo dello Spirito (Rm 5,5). La colomba, è d’argento (metallo che in araldica di fatto tiene il posto del bianco), in linea con il Salmo 68 (67): “Mentre voi dormite tra gli ovili, splendono d'argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d'oro” (v.14: un passo testualmente oscuro e molto discusso, che in ogni caso inneggia all’intervento salvifico divino in favore del suo popolo).
Essa è orientata verso il 2° quarto, dove su campo d’azzurro, smalto tipicamente mariano, si innalza il giglio, figura floreale per eccellenza in araldica, qui adottata come simbolo della Beata Vergine Maria. Maria, da me venerata come Madre della Fiducia, aprendosi, con una fede che è insieme fiducia e obbedienza a Dio, al dono dello Spirito, diviene immagine della Chiesa e modello per tutti i cristiani, nell’accoglienza di Cristo che si traduce in testimonianza di Lui. Da notare che il giglio richiama anche lo scoutismo, essendo simbolo dell’Agesci, associazione che molto ha influito nella mia formazione, e di cui tuttora faccio parte. L’emblema dell’Agesci come oggi si presenta nasce dalla sovrapposizione del giglio (violetto) che in passato apparteneva all’Asci (associazione scout maschile), al trifoglio d’oro dell’Agi (associazione scout femminile) che dal 1974 si è unita alla prima. Nel mio stemma non a caso il giglio, emblema originario di una associazione, è d’oro, smalto proprio dell’emblema dell’altra associazione.
Nell’ultimo quarto dello stemma è invece rappresentata una composizione che rimanda alla visione profetica della Gerusalemme nuova così come descritta nella parte finale del libro dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo (cap. 21). Su un campo d’argento, metallo che per la sua candida lucentezza può ben richiamare la santità e la Rivelazione di Dio che si fa conoscere agli uomini, campeggia il profilo della nuova Gerusalemme, la città santa, come descritta nell’ultimo libro della Bibbia. La città, d’oro (v.18), cioè splendente della gloria di Dio, viene descritta come a forma di quadrato (v.16), cioè orientata verso i quattro angoli della terra, quindi aperta ad accogliere ogni uomo, tanto che il grande muro che la cinge ha 12 porte, tre per ogni punto cardinale, mentre sulle porte stanno “dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele” (v.12: dove gli angeli, come altrove nel libro dell’Apocalisse, stanno ad indicare con ogni probabilità i responsabili della comunità cristiana, e segnatamente i vescovi, che sono posti da Dio a vigilanza della Chiesa, come guida e punto di riferimento sicuro, allo stesso modo di quanto era stato per i capostipiti di Israele). Pur aperta al mondo la città è salda, fortemente poggiata sulle sicure fondamenta del Vangelo che nel mondo risuona per la testimonianza degli Apostoli (e dei loro successori): “Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello” (v.14). Ma, ciò che segna la più netta distinzione con la Gerusalemme terrestre è il fatto che la città non è dotata di Tempio, dal momento che Dio e l’Agnello sono il suo tempio (v.22), cioè ogni uomo ha finalmente accesso diretto alla comunione con Dio e alla condivisione della vita divina, per mezzo della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Questa vita divina, secondo un’immagine cara alla tradizione giovannea espressa anche nel Quarto Vangelo, è indicata attraverso il simbolismo della luce: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello” (v.23).
Nello stemma il profilo quadrangolare delle mura della Gerusalemme nuova è, in linea con i testi di riferimento, rappresentato d’oro, mentre le 12 porte sono d’azzurro, ad indicare l’accesso alla vita celeste, a quel Regno dei cieli che, realizzato in maniera piena e definitiva alla fine dei tempi, già nella storia trova un suo segno e il suo germe nella Chiesa, sposa dell’Agnello. L’Agnello che si trova al centro di essa è rappresentato non “in pedi come sgozzato” come nella prima visione di esso descritta in Ap 5,6, ma solo in piedi, trionfante. Si tratta infatti del Cristo glorioso senza più alcun legame con la debolezza, al contrario di quello descritto con i segni della passione in linea con la descrizione del Risorto oferta dal Quarto Vangelo (Gv 20.20.25). Se nella presentazione dell’Agnello che fa nella prima parte della sua opera, l’autore dell’Apocalisse intende infatti confermare nella fede e incoraggiare quanti sono tribolati per la loro adesione a Cristo (cfr. Ap 7,13- 14) e sono chiamati a seguirlo per portare nel mondo i suoi valori, partecipando della sua passione gloriosa (cfr. Ap 14,1-5), nella seconda parte del libro l’Agnello è invece il Signore e il Giudice della storia, che viene a instaurare con potenza il suo Regno e a rendere partecipi definitivamente i credenti in Lui della sua vita e della sua gloria divine. Nel mio stemma l’Agnello, a diferenza della colomba simbolo dello Spirito, che è d’argento, è rappresentato nelle sue fattezze naturali. Vuole essere quasi un richiamo al mistero dell’Incarnazione del Verbo, mistero che nella storia trova il suo prolungamento nei credenti in Cristo che non solo sono chiamati a dimorare con Lui (come già fecero i primi discepoli seguendo l’indicazione del Battista che additò Gesù come l’Agnello di Dio: cfr. Gv 1,29.36-39), ma diventano essi stessi dimora di Dio e di Cristo (cfr. Gv 14,23), così come la Chiesa tutta si rivela dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3).
Il motto è lo stesso di San Giovanni XXIII. Sono parole che esprimono adesione fiduciosa e obbedienziale alla volontà di Dio, nella certezza che solo nella ricerca e nel compimento di questa volontà è la vera pace, cioè la partecipazione piena alla gioia di Dio, alla sua vita senza fine. Angelo Giuseppe Roncalli fece di questa espressione, sempre ripetuta dal Cardinale Baronio, il motto ispiratore della sua spiritualità e della sua opera. Dopo che il 17 febbraio 1925 il cardinale Pietro Gasparri gli annunciò la sua nomina a visitatore apostolico in Bulgaria e la conseguente elevazione alla dignità vescovile, durante gli esercizi in preparazione alla consacrazione episcopale – che si svolse nella Chiesa di San Carlo al Corso in Roma – Monsignor Angelo Roncalli scrisse nel Giornale dell’anima: “La Chiesa mi vuole vescovo, per mandarmi in Bulgaria, ad esercitare, come Visitatore Apostolico, un ministero di pace. Forse sulla mia via mi attendono molte tribolazioni. Con l’aiuto del Signore mi sento pronto a tutto. Non cerco, non voglio la gloria di questo mondo; l’aspetto molto grande nell’altro [...] Metto nel mio stemma le parole ‘Oboedientia et pax’, che il padre Cesare Baronio pronunciava tutti i giorni baciando in San Pietro il piede dell’Apostolo. Queste parole sono un po’ la mia storia e la mia vita. Oh, siano esse la glorificazione del mio povero nome nei secoli”.