Asterischi

 

“Asterischi” è una forma di colloquio, una comunicazione semplice, familiare, su qualche argomento emerso magari da un incontro o dall’osservazione di qualche cosa: asterischi, appunto, come le stelle più piccole che vediamo nel cielo, un po’ tremule rispetto alle loro sorelle più grandi e luminose, ma stelle.

La rubrica, tenuta dal Vescovo, compare su ‘Il Risveglio popolare’ a cadenza quindicinale.

 

 

 

 

 

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** 2019 **

10 gennaio 2019
Il 1° gennaio, Ottava di Natale e solennità della S. Madre di Dio, nella Messa si invoca la benedizione anche sull’inizio dell’anno civile. La Chiesa ha un suo anno speciale, l’Anno liturgico, che celebra gli eventi della vita di Cristo Salvatore, ma, vivendo nel mondo, ma non distoglie lo sguardo da ciò per cui fa festa la società civile: è la Chiesa del Dio che facendosi Uomo ha abbracciato tutto l’umano. Di qui il ringraziamento, con il canto del Te Deum, nelle ultime ore dell’anno che si chiude e la benedizione invocata sul nuovo anno civile che inizia.

La Chiesa è di Cristo e l’Incarnazione del Figlio di Dio è il cuore della sua fede, la quale, per sua natura, vive, si esprime e si comunica dentro le situazioni della vita e della storia umana.
Per sua natura perché questa è la logica dell’Incarnazione: Dio ha scelto di farsi Uomo in un tempo, un luogo, un popolo, una cultura, una lingua, e ha posto, in tal modo, una legge permanente del rapporto con Lui. Gesù non ha assunto, certamente, in tutto e per tutto, la cultura del popolo in cui era nato e cresciuto. Ha esercitato la libertà di prendere, anche decisamente, le distanze da alcuni elementi, ma si è immerso dentro a tutto ciò che il suo popolo era e viveva. Non l’ha guardato dall’esterno, standosene fuori; si è coinvolto!
A questa luce si comprende come sia lontano dal cristianesimo e da una autentica vita cristiana chi riduce la fede soltanto ad un intimo legame fra l’anima del credente e il suo Signore. Il rapporto personale con Dio, vissuto nell’intimità dell’amore, è al centro del cristianesimo, ma non autorizza affatto il trascurare – men che meno esiliare – quello con la realtà, quale essa sia.
C’è una sana secolarità, profondamente diversa dal secolarismo: consiste nell’adesione a Cristo abitando la polis con i suoi problemi e bisogni, amandola nella realtà del presente e del suo passato, con la disposizione d’animo a percepire dall’interno le inquietudini dell’uomo e i movimenti che percorrono la società; con l’attitudine all’ascolto e al dialogo, la prossimità e la condivisione; la disponibilità a portare la salvezza di Cristo al mondo abitandolo, condividendo le sue situazioni, le sue ansie e le sue crisi. Come ha fatto Gesù, che si è incarnato, si è messo con noi.
Il cristiano vive nel mondo con la consapevolezza che nella Chiesa il Regno di Cristo – definitivo in Cielo – è presente già ora come un seme deposto n terra, e che già sta fiorendo, come il lievito che già la sta fermentando la pasta. Senza una convinta e responsabile presenza del cristiano dentro le situazioni della società si lascia tutto il campo alla proposta di altre visioni e prospettive. E il cristianesimo perde la sua forza di rigenerazione.
Duemila anni di storia della Chiesa testimoniano questa fattiva, coraggiosa immersione nella vita della società da parte di uomini e di donne di fede che affrontarono problemi, cercarono soluzioni, diedero in tanti campi un incomparabile contributo, e mai si chiusero paurosamente in ambienti protetti… E’ la “logica dell’Incarnazione”; è la “carità”, la “missione”; è amore a Dio e passione per l’umano che Dio ha assunto: una impostazione così essenziale che non è estranea neppure alla vita specificamente contemplativa, come dimostra il monachesimo lungo i secoli!
Fa parte di questa logica dell’Incarnazione anche il non limitarsi, nell’annuncio del Vangelo, a ripetere ciò che ci è stato consegnato senza riviverlo nei nuovi contesti in cui ci si trova a svolgere la missione. E poiché per rivivere occorre capire che cosa è transitorio e che cosa costitutivo, è indispensabile appartenere vitalmente alla comunità cristiana, radunata attorno all’autorità dei Pastori, alla Parola di Dio, all’Eucarestia, portandovi le attese, le domande, il lavoro, la cultura, le gioie e speranze, i dolori e le fatiche. Sono così le nostre comunità? Ci impegniamo a edificarle così?
Ancorché piccole, esse già sono una risposta ai grandi problemi della vita e della storia, se sono “minoranze creative”. La loro presenza già è una concreta esperienza di trasformazione del mondo ad opera Grazia che è Gesù Cristo.
Buon Anno, Amici!

+ Edoardo, Vescovo

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24 gennaio 2019

Ricorre oggi la memoria di san Francesco di Sales (1567-1622) proclamato da Pio XI Patrono dei Giornalisti cattolici per la sua agile attività di diffusione di fogli a stampa, ma il suo riconosciuto capolavoro è la “Filotea”, pubblicata nel 1608, che già nel 1609 ebbe in italiano una prima traduzione. Innovativa fu la scelta del Sales di rivolgersi ai laici: «Di fronte a forme di pietà sovraccariche di elementi monastici – scrive lo studioso Anton Mattes – egli propone un nuovo modo di essere cristiani in mezzo al mondo».
Considerato padre della spiritualità moderna, Francesco di Sales ha influenzato le maggiori figure non solo del “grand siècle” francese, ma anche di tutto il Seicento europeo. A ragione può essere considerato uno dei principali rappresentanti dell’umanesimo devoto di tipica marca francese.
L’affinità con la proposta spirituale dell’Oratorio di san Filippo Neri è evidente. Francesco di Sales non aveva conosciuto personalmente san Filippo, ma era stato a contatto, a Roma, durante la sua permanenza nel 1598-99, con l’ambiente filippino, incontrando alla Vallicella e stringendo amicizia con i principali tra i primi discepoli del santo. La stima che nutrì per l’ambiente vallicelliano è certamente alla base della scelta di assumere per la “Sainte Maison” – da lui fondata in Thonon – l’ordinamento della Congregazione dell’Oratorio: come tale fu eretta da Clemente VIII nel 1598 e sempre tale fu considerata; significativo poi che abbia avuto il cardinale Cesare Baronio come protettore.
Ordinato sacerdote nel 1593, spinto da fervido amore per l’ortodossia cattolica, ottenne di essere inviato – dopo aver lavorato a Ginevra – nella regione del Chablais, dominata dal Calvinismo e si dedicò alla predicazione, scegliendo il dialogo anziché la contrapposizione polemica. I suoi enormi sforzi e i grandi successi ottenuti gli meritarono la nomina, a trentadue anni, a vescovo coadiutore; tre anni dopo la diocesi di Ginevra gli verrà affidata. «Cor ad cor loquitur» scrisse: il cuore parla al cuore. Il B. John Henry Newman da lui prese il motto cardinalizio.
L’impegno svolto dal Sales al servizio di una vastissima direzione spirituale – nella profonda convinzione che la via della santità è dono dello Spirito per tutti i fedeli, religiosi e laici, uomini e donne – fece di lui uno dei più grandi direttori spirituali di tutti i tempi. E la sua azione ebbe nel dialogo, nella dolcezza e nel sereno ottimismo il proprio fondamento.
«Bisogna aver pazienza di essere della natura umana e non dell’angelica» – si legge nelle sue lettere; «Cercate di fare bene oggi senza pensare al giorno seguente, poi, il giorno seguente, cercate di fare lo stesso. Parlate poco e mite, poco e buono, poco e semplice, poco e amabile.
Noi facciamo sempre abbastanza quando facciamo bene. Il male è mezzo guarito quando se ne è scoperta la causa. Il contadino non sarà mai messo sotto accusa se non ottiene un buon raccolto, ma lo sarà certamente se non ha ben coltivato e ben seminato i campi. A che serve costruire castelli in Spagna, visto che bisogna abitare in Francia?»
Dalla “Filotea”, cap. XII: «Dice S. Paolo che la tristezza secondo Dio opera la penitenza per la salvezza; la tristezza del mondo, invece, opera la morte: angoscia, pigrizia, sdegno, gelosia, invidia, impazienza. Se mai dovesse capitarti, o Filotea, di essere afflitta da questa cattiva tristezza, metti in atto i seguenti rimedi: prega: è il rimedio più efficace perché innalza lo spirito a Dio, nostra unica gioia e consolazione; combatti con forza la tendenza alla tristezza; e anche se hai l’impressione che tutto quello che stai facendo in quel frangente rimanga distante e freddo, triste e fiacco, non rinunciare a farlo; il nemico che vuole per mezzo della tristezza far morire le nostre buone opere, vedendo che non sospendiamo di farle, e che compiute con sforzo valgono di più, cesserà di tormentarci. Canta dei canti spirituali; spesso il maligno abbandona il campo di fronte a quest’arma. E’ cosa buona occuparsi in atti esteriori e variarli più che possiamo, per distrarre l’anima dall’oggetto della tristezza, purificare e riscaldare gli spiriti; questo perché la tristezza è una passione fredda e arida. Compi atti esteriori di fervore, anche se non ci trovi alcuna attrattiva: abbraccia il Crocifisso stringendolo al cuore. La frequenza alla Santa Comunione è ottimo rimedio; perché questo pane celeste dà forza al cuore e gioia allo spirito».

+ Edoardo, Vescovo

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8 febbraio 2019

“Se il clero di Torino crebbe in fama di virtù e zelo, certamente in gran parte lo deve al beato Valfré”, affermava nel 1872 l’arcivescovo Lorenzo Gastaldi mentre erano in vita – per citare alcuni di cui la Chiesa già ha proclamato la santità – don Bosco, don Faà di Bruno, don Allamano, don Murialdo, don Albert, don Marchisio, don Giovanni Maria e don Luigi Boccardo, ed erano morti da poco don Cafasso e il Cottolengo.

Nell’apprendere la notizia della morte di padre Sebastiano Valfré (1629-1710), il duca Vittorio Amedeo II di Savoia disse: “Io ho perduto un grande amico, la Congregazione dell’Oratorio un grande sostegno, i poveri un gran protettore e padre”. Al sintetico elogio si può aggiungere che anche la Spagna e la Francia perdevano l’umile sacerdote che aveva formato spiritualmente le principesse Maria Adelaide e Maria Luisa, le quali, andate spose ai sovrani di quelle nazioni, lasciarono nei due Paesi una profonda orma di bene. E alla Sede Apostolica veniva meno un figlio devoto che tanto aveva operato nelle frequenti controversie giurisdizionali con la Corte sabauda e aveva fatto giungere a Roma, in questo contesto, anche il suggerimento di un’istituzione – l’attuale Pontificia Accademia Ecclesiastica – che curasse l’adeguata formazione del personale diplomatico della Chiesa.
Era nato in un piccolo borgo di Verduno, diocesi di Alba, da umile famiglia che si procurava da vivere con il lavoro dei campi, ma che, in una situazione di diffuso analfabetismo, aveva offerto a Sebastiano il grado d’istruzione che gli permise di seguire i primi studi ad Alba, d’entrare poi nel seminario di Bra e di continuare, mantenendosi con il lavoro di scrivano, la formazione filosofica a Torino, presso il Collegio dei Gesuiti, frequentato in prevalenza dai nobili. Conseguirà all’Università la laurea in teologia e sarà ascritto al Collegio dei teologi. Fu ordinato sacerdote ad Alba il 24 febbraio 1652 come membro della più povera e precaria delle istituzioni religiose che allora sorgevano a Torino, la Congregazione dell’Oratorio fondata nel 1649 dal canavesano padre Defera, il quale, venuto a morire un anno dopo, aveva lasciato in comunità il solo padre Cambiani, uomo di ricca spiritualità ma di doti modeste. Il suddiacono Valfré vi era entrato, dopo la morte di padre Defera, attratto dall’esempio del suo generoso ministero.
Uomo d’intensa preghiera, padre Sebastiano non lo fu meno nell’attività apostolica. Pur impegnato in Congregazione in diversi incarichi, per lunghi anni fu predicatore in conventi e monasteri, in chiese parrocchiali, in vari istituti di carità e a corte; ma alla scuola di Filippo Neri – di cui in Torino fu il “vivo ritratto” – annunciò la Parola di Dio anche per le vie e sulle piazze, “alla semplice” come ricordano i primi biografi. Fu apostolo del catechismo – tra i suoi scritti di valore lasciò un testo di catechesi che sarebbe servito alla Chiesa per molto tempo -, confessore ricercato, formatore di anime, saggio consigliere d’ogni classe sociale, formatore anche del clero ed esaminatore dei candidati della diocesi agli Ordini sacri e alla Confessione.
Partecipe di tutte le iniziative di bene che fiorivano in Torino, la Città della Sindone – a cui guardò con immensa venerazione – fu “padre dei poveri”, in diretto contatto con ogni situazione di bisogno: quante volte fu visto passare durante le notti per le strade e caricarsi sulle spalle poveri cenciosi per condurli in qualche ricovero, o salire le scale di misere case, carico di pacchi di viveri e d’indumenti. Malati e bisognosi, carcerati, ragazze costrette a prostituirsi, monasteri poveri, ma anche i Valdesi e gli Ebrei – che gliene furono grati – lo ebbero vicino.
Nella città sottoposta al fuoco delle bombe e ridotta alla fame durante l’assedio francese del 1706, non si risparmiò, pur anziano e consunto dalle fatiche: vicino ai feriti, ai soldati, alla intera città, invitando, sui bastioni e per le strade, alla fiducia in Dio e nella Madonna Consolata. In onore della Vergine, nel giorno della cui Natività Torino fu libera, il Sovrano, per voto ispirato dal Valfré, farà innalzare il maestoso tempio sul colle di Superga.
Si spense il 30 gennaio 1710 nella sua piccola camera, ingombra delle carte di studioso e d’imballaggi di vestiario e di viveri per i poveri. Era stato colto da febbre il 24 quando, dopo aver predicato alle monache di Santa Croce, andò in carcere a confortare un condannato che la mattina seguente sarebbe stato giustiziato, e tornò a casa di corsa, per essere puntuale alla preghiera della comunità filippina.

+ Edoardo, Vescovo

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21 febbraio 2019

Meno di 30 Km separano Tronzano Vercellese da Castelrosso di Chivasso. Parroci delle due Parrocchie, nel XVIII secolo, due preti, uno beatificato, l’altro ricordato con venerazione: entrambi già in vita chiamati santi dalla “vox populi”: Giacomo Abbondo (1720-1788) e Vincenzo Actis (1751-1816). Per sei anni della loro vita – dal 1782 all’88 – esercitarono la cura delle rispettive Parrocchie a così breve distanza.

Giacomo Abbondo, conseguita nel 1748 la laurea in lettere all’Università di Torino, fu insegnante nelle Scuole Regie di Vercelli fino al 1757, quando lasciò l’insegnamento per fare il parroco a Tronzano, suo paese natale. A chi gli chiedeva a quanto ammontava il beneficio parrocchiale rispondeva: “Può valere il Paradiso o l’Inferno”. Aveva ereditato una difficile situazione succedendo ad un parroco simpatizzante del giansenismo e del rigorismo sacramentale, che era riuscito letteralmente a “svuotare” la chiesa. Innamorato di Dio, convinto del suo sacerdozio come servizio e sempre disponibile nei confronti dei suoi parrocchiani, il nuovo parroco si impegnò in ogni modo a far riscoprire la bellezza e la bontà di Dio, la possibilità di conoscerlo, di pregarlo, di incontrarlo sovente nella sua Parola e nei Sacramenti. Portò la parola di Dio ai più lontani, andandoli a cercare; ai poveri non di rado donava anche i suoi pasti o i suoi indumenti e per essi organizzò un comitato caritativo che faceva arrivare a domicilio viveri, legna e medicine. Rinnovò la fede della sua gente attraverso la Liturgia, l’invito alla Comunione settimanale; comprese l’efficacia della catechesi familiare nella quale coinvolse direttamente i genitori; portò frequentemente la Comunione ai malati, raggiungendo a cavallo anche le abitazioni più isolate; sostò di frequente in chiesa a disposizione per le Confessioni. La parrocchia cominciò a rifiorire, la chiesa tornò a riempirsi.

Vincenzo Actis, primo parroco di Castelrosso, resse per 34 anni la Parrocchia. Era nato nel 1751 a Rodallo di Caluso. Si formò intellettualmente grazie a validi insegnanti (a Ivrea e a Chivasso), ma un ruolo fondamentale nella sua formazione umana e cristiana lo svolse la famiglia. Ordinato prete il 23 marzo 1776, dedicò i primi anni di apostolato, in particolare, al ministero della Confessione. Le sue doti furono notate dal parroco di Casalborgone (allora diocesi di Ivrea), che nel 1778 lo volle suo coadiutore: si conquistò anche qui la stima di tutto il paese, come accadrà a Castelrosso, dove lo zelo pastorale, la dedizione nel ministero, la generosità verso i poveri, l’umiltà, la pazienza, lo spirito di preghiera ricordano assai da vicino quelli del beato Abbondo.
Si donò fino a logorare il suo fisico. Morì a soli 64 anni, il 23 luglio 1816, nelle prime ore del pomeriggio. Per tre giorni non si poté procedere alla sepoltura a causa della folla che veniva a visitare la bara del Prevosto. Fu eseguito un ritratto e moltissime famiglie ne vollero in casa una copia. A cento anni dalla morte, in una solenne commemorazione della sua figura, si poté constatare quanto vivo fosse il suo ricordo trasmesso di generazione in generazione. Nel 1982, bicentenario di erezione della parrocchia di Castelrosso, i resti di don Actis furono riesumati e collocati presso il nuovo altare. Anche Rodallo volle una reliquia del suo concittadino: fu posta nella chiesa di san Rocco insieme al suo ritratto.

Due preti il cui ministero non ebbe nulla di sensazionale o di strepitoso. Il loro “segreto” fu di essere profondamente, convintamente preti.

+ Edoardo, Vescovo

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7 marzo 2019

745 anni fa, il 7 marzo, moriva san Tommaso d’Aquino.
A Napoli, in S. Domenico Maggiore, fra Tommaso, terminato il suo trattato sulla Eucaristia, pose il testo sull’altare offrendolo al Signore e ascoltò da Gesù: «Hai scritto bene di me, Tommaso. Quale ricompensa chiedi?»; egli rispose: «Nient’altro che te, Signore». «La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino – disse Benedetto XVI – si potrebbe riassumere in questo episodio tramandato dagli antichi biografi». L’Eucaristia infatti «racchiude tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo, dà vita agli uomini» (Presbyterorum ordinis,5).

L’Adoro te devote raccoglie il pensiero e la spiritualità del Dottore Angelico.

Adoro Te devotamente, o Dio nascosto,
che sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A Te tutto il mio cuore si abbandona,
perchè, contemplandoTi, tutto vien meno.

Adoro, la prima parola dell’inno, è già una grande professione di fede: adoriamo, infatti, l’Ostia consacrata perché crediamo che in essa è veramente presente Gesù Cristo, «nato da Maria Vergine, che veramente ha patito e fu immolato sulla croce per l’uomo». E, credendo, adoriamo la Persona di Gesù, costituita dal mistero ineffabile dell’unione ipostatica della Divinità e dell’Umanità.
Devotamente esprime le disposizioni profonde del cuore di chi adora. Il Dottore Angelico ha dedicato due interi articoli della Summa alla devozione, che considera il primo e più importante atto della virtù di religione. Consiste, la devozione, nella disponibilità della volontà a offrire noi stessi a Dio in un servizio senza riserve, come canta l’Angelico: «A te il mio cuore tutto si abbandona»!
Ma la fiamma più alta si eleva nel «contemplandoTi, tutto vien meno». Contemplazione eucaristica è guardare uno che mi guarda e lasciarmi permeare dai Suoi pensieri e sentimenti. L’adorazione è contatto “cuore a cuore” con Gesù presente realmente nell’Ostia e, attraverso Lui, consente di elevarsi al Padre nello Spirito Santo..

La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano
ma solo con l’udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio.
Nulla è più vero di questa parola di verità.

Ascoltando Gesù che dice «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue» non abbiamo bisogno della vista e del tatto per essere certi che non è pane, non è vino, quello che vediamo, ma il corpo e il sangue del Redentore. La parola di Cristo interpella tutta la nostra fede: fede nel potere del Creatore, fede in Gesù Salvatore; fede nell’azione ineffabile dello Spirito Santo intervenuto nella incarnazione del Verbo e che interviene nella mirabile transustanziazione.

Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l’umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.

Questa strofa dell’inno ci porta sul Calvario. Tra i personaggi che si trovarono là, san Tommaso sceglie il buon ladrone, il primo a cui Gesù assicurò il Paradiso. E’ un caldo invito a identificarci con lui nel riconosere che siamo peccatori, ma anche che infinita è la misericordia del Salvatore, il quale non lascia perire chi a Lui si rivolge pentito. Un profondo sentimento di umiltà e di contrizione ci pervade, insieme ad una immensa fiducia… Con il ladro pentito noi guardiamo il Signore crocifisso e impariamo i passi di un rinnovato cammino. Insegna infatti san Tommaso: «Passio Christi sufficit ad informandum totaliter vitam nostram»: basta volgere gli occhi al Crocifisso per imparare tutto ciò di cui abbiamo bisogno nella vita. «Nullum enim exemplum virtutis abest a Cruce»: nessun esempio di virtù, infatti, è assente sulla croce: fortezza, pazienza, umiltà, distacco, carità, obbedienza, disprezzo degli onori, povertà, abbandono fiducioso… L’Eucaristia è una cattedra eccelsa dalla quale impariamo a vivere cristianamente, a servire lietamente; a obbedire liberamente; a cercare la Verità nell’Amore…

+ Edoardo, Vescovo

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21 marzo 2019

21 marzo: dies natalis di san Benedetto, che si festeggia l’11 luglio. San Paolo VI nel 1964 lo proclamò Patrono d’Europa; san Giovanni Paolo II, nel 1980, gli affiancò come Compatroni del Continente che si estende dall’Atlantico agli Urali Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi; e nel 1999, a riconoscimento del contributo delle donne alla costruzione dell’Europa, anche Caterina da Siena, Brigida di Svezia e Teresa Benedetta della Croce-Edith Stein.

Nato intorno al 480 nella Nursia, Benedetto studiò a Roma, ma non si fermò a lungo nell’Urbe. “Soli Deo placere desiderans” – volendo piacere a Dio solo, scrive Gregorio Magno – si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma, poi per un periodo si associò a una comunità di monaci; in seguito si fece eremita nella non lontana Subiaco vivendo un periodo di solitudine con Dio e di maturazione. Fu allora che decise di fondare i suoi primi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco da dove passò a Montecassino.
Un altro grande Benedetto, Benedetto XVI, disse: “L’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – 1’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha la sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società: deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Quando san Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò – con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata – un patrimonio che ha portato frutto nei secoli trascorsi e ne porta tuttora in tutto il mondo. Una vita, quella di san Benedetto, immersa in un’atmosfera di preghiera. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli visse sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’umo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. La preghiera è in primo luogo un atto di ascolto che deve poi tradursi nell’azione concreta. Il Signore – afferma il Santo – ‘attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti’. Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione ‘affinché in tutto venga glorificato Dio’. In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile è la sincera ricerca di Dio, sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente, all’amore del quale nulla si deve anteporre; e proprio così, nel servizio dell’altro, si diventa uomini del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’ascolto di Dio e dell’obbedienza alla sua Parola, posta in atto con una fede animata dall’amore, si conquista l’umiltà e si diventa sempre più conformi a Cristo, raggiungendo la vera autorealizzazione come creature fatte ad immagine e somiglianza di Dio. Proclamandolo Patrono d’Europa, Paolo VI intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle ideologie rivelatesi tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del ‘900 ha causato, come ha rilevato Giovanni Paolo II, ‘un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità’. San Benedetto rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero. La sua Regola offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero”.

+ Edoardo, Vescovo

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4 aprile 2019

“L’Europa non è soltanto Bruxelles e le sue istituzioni, ma la storia, la cultura, la vita, i problemi dei popoli che la costituiscono” ho detto più volte, di questi tempi, in relazione al fatto che di Europa, per note ragioni, si sente parlare soprattutto in riferimento alle sue istituzioni. E’ utile ricordare le riflessioni del Sinodo dei Vescovi (1991 e 1998), cui è seguita nel 2003 la “Ecclesia in Europa” di san Giovanni Paolo II. Ne riporto qualche passo, come invito a rileggere tutto quel testo.

«Le Istituzioni europee hanno per scopo dichiarato la tutela dei diritti della persona umana. In questo compito esse contribuiscono a costruire l’Europa dei valori e del diritto. I Padri sinodali hanno interpellato i responsabili europei, dicendo: “Alzate la voce quando sono violati i diritti umani dei singoli, delle minoranze e dei popoli, a cominciare dal diritto alla libertà religiosa; riservate la più grande attenzione a tutto ciò che riguarda la vita umana dal suo concepimento fino alla morte naturale e la famiglia fondata sul matrimonio: sono queste le basi sulle quali poggia la comune casa europea; […] affrontate, secondo giustizia ed equità e con senso di grande solidarietà, il crescente fenomeno delle migrazioni, rendendole nuova risorsa per il futuro europeo; fate ogni sforzo perché ai giovani venga garantito un futuro veramente umano con il lavoro, la cultura, l’educazione ai valori morali e spirituali».

«La situazione europea è segnata da gravi incertezze a livello culturale, antropologico, etico e spirituale. Vorrei ricordare lo smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone la eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo».
«A questo smarrimento della memoria cristiana si accompagna una sorta di paura nell’affrontare il futuro. Ne sono segni preoccupanti, tra gli altri, il vuoto interiore che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita. Tra le espressioni e i frutti di questa angoscia esistenziale vanno annoverati, in particolare, la drammatica diminuzione della natalità, la fatica, se non il rifiuto, di operare scelte definitive di vita anche nel matrimonio.
L’odierna situazione europea conosce il grave fenomeno delle crisi familiari e del venir meno della stessa concezione di famiglia, il perdurare o il riproporsi di conflitti etnici, il rinascere di alcuni atteggiamenti razzisti, le stesse tensioni interreligiose, l’egocentrismo che chiude su di sé singoli e gruppi, il crescere di una generale indifferenza etica e di una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi.
Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come “il centro assoluto della realtà”, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l’uomo, per cui “non c’è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana”. Siamo di fronte all’emergere di una nuova cultura, in larga parte influenzata dai mass media, dalle caratteristiche e dai contenuti spesso in contrasto con il Vangelo e con la dignità della persona umana. I segni del venir meno della speranza talvolta si manifestano attraverso forme preoccupanti di ciò che si può chiamare una «cultura di morte».

Ha detto Papa Francesco: «Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello “spirito umanistico” che pure ama e difende. A partire dalla necessità di un’apertura al trascendente, intendo affermare la centralità della persona umana, altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento. In questo senso ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio…».
«Che cosa ti è successo, Europa?» ha chiesto il Papa.
Comprendere le ragioni è indispensabile sempre. Diceva un leader politico italiano, in tempi non molto lontani: «C’è un dramma più grave del perdere le elezioni. E’ il non sapere il perché si sono perse». E non vale solo per la politica…

+ Edoardo, Vescovo

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11 aprile 2019

EUROPA
Riflessione necessaria

Non ho mancato di proporre sul nostro giornale qualche spunto di riflessione sull’argomento. Torno sul tema riportando, per ragioni di spazio, solo l’ultima parte dell’ampio testo, facilmente rintracciabile in internet, della lectio magistralis tenuta a Milano, il 6 aprile scorso, dall’Arcivescovo di Trieste monsignor Giampaolo Crepaldi, su “Europa, processo di unificazione europea, Unione Europea: una valutazione dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa”.

« L’Europa non crede più a nulla.
Benedetto XVI ha detto che l’Europa odia se stessa, Remi Brague ha affermato che l’Europa non crede più in nulla, Gianni Baget-Bozzo aveva detto che l’Europa si considera una colpa ed è stretta tra nichilismo e islam, Walter Laqueur sostiene che l’Europa sta vivendo i suoi ultimi giorni, Giulio Meotti afferma che si suicida ed è alla fine e Jürgen Habermas che è in crisi. Torna però la domanda: costoro si riferiscono all’Europa o all’Unione Europea nel suo attuale stato di realizzazione? É quest’ultima ad essere estenuata e in fase terminale oppure ad essere in questo stato è quanto normalmente, anche se ambiguamente, viene chiamato lo “spirito europeo” di cui ho tratteggiato alcune caratteristiche? La risposta a questa domanda è molto importante, perché diagnostica il male e, quindi, pone le basi per la terapia, dicendoci dove si deve intervenire con urgenza. Vorrei esprimere a questo proposito alcune valutazioni conclusive.
Ventotene e l’europeismo.
Che il processo di unificazione sovrastatale abbia preso una piega non condivisibile è indubbio, proprio alla luce delle esigenze sia dell’Europa che della Dottrina sociale della Chiesa viste sopra. Solo il fatto che l’Unione Europea sia il principale finanziatore dell’aborto nel mondo la dice lunga a questo proposito. Esiste l’ideologia dell’europeismo, portata avanti da molte forze politiche, dalle élite intellettuali del vecchio continente e da ampi strati dell’apparato funzionalistico dell’Unione Europea che opera per cooptazione. Questa ideologia dell’europeismo ha una visione della persona e della vita sociale non condivisibile dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa. Si tratta di una ideologia che non viene proposta ma per molti versi imposta da un apparato – potremmo dire con Gramsci da un “blocco storico” – sovranazionale.
Questa evidenza, però, non deve farci perdere di vista che non si è trattato solo di una cappa imposta e sovrapposta ad un’Europa inconsapevole. L’ideologia europeista – individualista, irreligiosa, relativista, “borghese allo stato puro” direbbe Del Noce – è cresciuta e maturata nell’Europa. Se bisogna riconoscere che le istituzioni europee hanno fatto da volano a questa ideologia, va anche riconosciuto che essa c’era anche prima e ha condizionato dal basso lo stesso processo di unificazione, che ne è, in un certo senso, la causa, ma anche il frutto. La cultura europea si è staccata dall’Europa come sopra l’abbiamo descritta e il processo di unificazione nell’Unione Europea ha espresso questo distacco, a sua volta accelerandolo. Possiamo dire che i due percorsi sono stati sinergici, producendo significativi effetti, pur se dannosi.
Se questa mia analisi è fondata, ne deriva che è senz’altro indispensabile dedicare attenzione critica ed azione correttiva nei confronti dell’Unione Europea (non essendo un politico non voglio entrare qui nella “misura” di questa attenzione critica e azione correttiva), ma è anche insufficiente, bisogna infatti riprendere in mano l’Europa. Attenzione però all’ambiguità dello slogan “+ Europa”. Se con queste parole si intende più Unione Europea non mi sentirei di suggerire di porsi su questa strada, almeno finché l’Unione rimane come è adesso. Se invece significa “+ Europa” nel senso dell’anima del continente, allora bisogna chiedersi “per quale Europa”? e adoperarsi per l’Europa della Dottrina sociale della Chiesa e non per l’Europa del Manifesto di Ventotene.
Rallentare questo processo di unificazione da un lato (ripeto: non entro nelle modalità politiche di questa operazione) e animare forze autenticamente europee dall’altro. Frenare l’Unione Europea per avere il tempo e lo spazio per costruire più Europa nel senso della sua vera natura e della sua vera storia. In questo contesto si colloca anche una equilibrata valutazione della questione delle sovranità e dei sovranismi, su cui la Dottrina sociale della Chiesa ha molto da dire. Frenare la cessione di sovranità all’Unione da parte degli Stati ed eventualmente recuperarne, può avere senso se serve a distribuire sovranità sussidiaria al di sotto degli Stati: viceversa sarebbe un sovranismo ugualmente criticabile.
Concludo con una citazione. Nel suo ottimo libro Le metamorfosi della Città di Dio, Étienne Gilson dedica un capitolo anche all’Europa. Dapprima egli fa notare ciò che di solito anche noi ci troviamo a dire: “Vi è chi cerca di dare un corpo all’Europa, ma di che cosa vivrà questo corpo, se non gli diamo un’anima?”. Credo che voi concorderete che spesso anche noi diciamo così. Ma poi Gilson rovescia la prospettiva, dicendo: “Quando sarà pronto, il corpo dell’Europa avrà la sua anima, e dopo averla vista vivere i posteri sapranno di cosa si tratta”. Ecco il problema: far vivere la vera Europa ».

+ Edoardo, Vescovo

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25 aprile 2019

«Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che ci viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità».

Ho ripetuto queste parole in tutte le celebrazioni pasquali, dalla “Coena Domini” alla Domenica di Risurrezione. Se tenuta viva nell’esistenza quotidiana, questa verità sostiene i passi del nostro cammino e ci permette di aderire all’unica novità in grado di cambiare la vita; se si affievolita o la si dimentica, anche la buona volontà e l’impegno di fare il bene perdono la forza che viene da Colui che ha detto, con la “pretesa” che Egli solo può avanzare: «Senza di me non potete far nulla».
Solov’ev pose queste parole sulle labbra dello starets Giovanni: e sono il culmine narrativo e contenutistico del “Breve racconto dell’Anticristo”, uscito nel febbraio dell’anno 1900, cento e diciannove anni fa.
Propongo del testo una rapida sintesi, tralasciando, per ragioni di spazio, vari dettagli interessanti.
«C’era un uomo ragguardevole che godeva della rinomanza di grande pensatore, di scrittore e di riformatore sociale. Non aveva per Cristo una ostilità di principio, ma faceva un ragionamento di questo genere: “Il Cristo è stato il riformatore dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita; io invece sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità. Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario. Il Cristo, come moralista ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò con i benefici che sono ugualmente necessari ai buoni ed ai cattivi. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace…”. Con la sua celebre opera intitolata: La via aperta verso la pace e la prosperità universale, trascinava tutti… Veramente alcune pie persone, pur lodando con calore il libro, si domandavano perché mai non vi fosse nominato, nemmeno una volta, il Cristo, ma altri cristiani ribattevano: “Sia lodato Iddio! Dal momento che il contenuto del libro è permeato di vero spirito cristiano, dell’amore attivo e della benevolenza universale, che volete ancora?”.
Poco dopo la pubblicazione, si doveva tenere a Berlino l’assemblea costituente internazionale dell’Unione degli Stati Uniti d’Europa. I reggitori della politica generale europea, appartenenti alla potente confraternita dei frammassoni, si rendevano conto della carenza di una autorità generale esecutiva. Raggiunta al prezzo di tanta fatica, l’Unione europea era ad ogni istante sul punto di disgregarsi. Allora gli “adepti” decisero di rimettere il potere esecutivo nelle mani di una sola persona, munita dei pieni poteri necessari. Il principale candidato era lui, membro segreto dell’ordine. Fu eletto presidente a vita degli Stati Uniti d’Europa ed emanò un proclama che cominciava così: “Popoli della terra! Vi do la mia pace!” e terminava con queste parole: “Si sono compiute le promesse!”.
Nel secondo anno di regno proclama: “Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e ve l’ho data. Ma la pace è bella soltanto con la prosperità”. Grazie alla concentrazione nelle sue mani di tutte le tutte le finanze del mondo, egli poté realizzare questa riforma, venendo incontro ai desideri dei poveri, senza scontentare in modo sensibile i ricchi. Era innanzitutto un filantropo, non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Realizzò l’uguaglianza della sazietà generale.
Ma se la sazietà costituisce il primo interesse per chi ha fame, per quelli che sono sazi sorge il desiderio di qualche cosa d’altro. Viene alla ribalta la questione religiosa. La affrontò innanzitutto nei suoi rapporti con il cristianesimo che aveva subito una fortissima diminuzione nel numero dei suoi fedeli. Pubblicò un manifesto indirizzato ai cristiani di ogni confessione, invitandoli a un concilio ecumenico da tenere sotto la sua presidenza. Si presentarono per i cattolici il papa Pietro II, per gli ortodossi lo starets Giovanni, per la delegazione evangelica il teologo tedesco professor Ernest Pauli. L’imperatore disse: “Cristiani di tutte le confessioni! Voglio che non per dovere, ma per un sentimento di amore che viene dal cuore, voi mi riconosciate per vostro vero capo in ogni azione intrapresa per il bene dell’umanità. E così voglio darvi un segno di particolare benevolenza. Cristiani, come potrei rendervi felici? Ditemi ciò che più vi sta a cuore nel cristianesimo. Disgraziatamente voi vi siete frazionati in sette e partiti diversi, ma se non siete capaci di mettervi d’accordo tra voi, spero di mettere d’accordo io tutte le parti per soddisfare la vera aspirazione di ciascuno. Cari cristiani! So che molti di voi hanno più caro, di tutto nel cristianesimo, quell’autorità spirituale che esso dà ai suoi legittimi rappresentanti e non per loro particolare vantaggio ma senza dubbio per il bene comune, poiché su questa autorità spirituale si basa il giusto ordine spirituale, nonché la disciplina morale, indispensabile per tutti. Cari fratelli cattolici, per nostra autocratica volontà, il papa romano, da questo momento è reintegrato nel suo seggio di Roma, con tutti i diritti e le prerogative di un tempo”. Con esclamazioni di gioia, quasi tutti i principi della Chiesa cattolica, cardinali e vescovi, la maggior parte dei credenti laici e più della metà dei monaci salirono sul palco dopo essersi profondamente inchinati all’imperatore. Ma giù, in mezzo all’assemblea, diritto ed immobile come una statua di marmo, il papa Pietro II rimase al suo posto.
L’imperatore alzò di nuovo la voce: “Cari fratelli! So che tra voi ci sono di quelli per i quali le cose più preziose del cristianesimo sono la sua santa tradizione, i vecchi simboli, i cantici e le preghiere antiche, le icone e le cerimonie del culto. Sappiate dunque, che oggi ho firmato lo statuto e fissata la dotazione di larghi mezzi per un museo universale dell’archeologia cristiana che verrà fondato a Costantinopoli, con lo scopo di raccogliere, conservare, studiare tutti i monumenti dell’antichità ecclesiastica, principalmente quelli della Chiesa orientale”. E la maggior parte dei prelati salirono sul palco con grida di gioia. Ma lo starets Giovanni lasciò il suo banco ed andò a sedersi accanto a papa Pietro e al suo gruppo.
L’imperatore prese di nuovo a parlare: “Mi sono noti fra voi, cari cristiani, anche coloro che nel cristianesimo apprezzano più di tutto la personale sicurezza in fatto di verità e la libera ricerca riguardo la Scrittura: ho firmato la creazione di un istituto universale per la libera ricerca sulla Sacra Scrittura in tutte le sue parti e da tutti i punti di vista, nonché per lo studio di tutte le scienze ausiliarie, con un bilancio annuale di un milione e mezzo di marchi. Più della metà dei sapienti teologi si mosse verso il palco. Il professor Pauli pareva abbarbicato al suo seggio. Con la minoranza rimasta con lui, si alzò con movimento un po’ indeciso, e venne con essi a sedersi accanto allo starets Giovanni, al papa Pietro ed ai loro gruppi. Ad essi l’imperatore si rivolse dicendo: “Strani uomini, cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora, simile ad un cero candido, si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che ci viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano, siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa noi possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. Eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, è morto e risuscitato e che verrà di nuovo…”. Tacque e piantò il suo sguardo nel volto dell’imperatore. In costui avveniva qualche cosa di tremendo. Nel suo intimo si stava scatenando una tempesta infernale. Aveva perduto interamente il suo equilibrio interiore. Lo starets Giovanni gridò con voce strozzata: “Figlioli, è l’Anticristo!”».
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Romano Guardini: «Il cristianesimo non è una teoria della verità o una interpretazione della vita. E’ anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo nucleo è costituito da Gesù Cristo, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino, cioè da una personalità storica. Tutto si attua attraverso la persona amata; essa è contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, a tutto essa dà senso. Nella esperienza di un grande amore, tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».
Giovanni Paolo II: «No, non una formula ci salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: “Io sono con voi”».
A tutti, ancora buona Pasqua!

+ Edoardo, Vescovo

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16 maggio 2019

«Tutta la vita del beato John Henry Newman è espressione del grido più profondo del cuore umano, che cerca appassionatamente la Verità e quindi ha sete di Cristo e del Suo Amore», ho detto a chi mi ha intervistato, alcuni giorni fa, quando è diventata ufficiale la decisione di Papa Francesco di proclamare santo l’oratoriano inglese. Il motto scelto da Newman per il suo stemma cardinalizio – «Cor ad cor loquitur: il cuore parla al cuore» – tratto dagli scritti di san Francesco di Sales, fondatore dell’Oratorio di Thonon, rimanda al fondamento della vocazione cristiana: incontro personale con Gesù, dal quale sgorga l’incontro vero con i fratelli.

John Henry Newman (1801-1890) da anglicano divenne cattolico attraverso un lungo cammino di ricerca della verità, iniziato a 15 anni, quando lo colpì una frase di Thomas Scott: «La santità piuttosto che la pace». E’ una storia straordinaria che commuove il cuore e al tempo stesso affascina l’intelletto – due tratti della santità di Newman inscindibilmente legati – e che risuona mirabilmente sintetizzata nelle parole che egli volle incise sulla sua tomba: «Ex umbris et imaginibus in veritatem: dalle ombre e dalle apparenze alla verità»: un percorso d’approfondimento della fede attraverso lo studio teologico e storico, la preghiera e l’ascolto di Dio.
Un tratto costante del suo cammino, già nella fase anglicana, è la consapevolezza degli errori del liberalismo religioso che – scrisse Newman – «pretende di assoggettare al giudizio umano le verità rivelate» e del quale disse, nel “Discorso del biglietto”, pronunciato quando da Leone XIII fu fatto cardinale (1879), «è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, e secondo cui un credo vale quanto un altro». «Il liberalismo è contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate perché per tutte si tratta di una questione di opinioni: non una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; e quindi ciascun individuo ha il diritto di farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. Si possono frequentare le chiese protestanti e le chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna».
Newman aveva perfettamente colto i segni della «apostasia dei nostri tempi», come egli già la chiamava: il rinnegamento di Cristo. Il suo sguardo scorgeva con lucidità nella propria epoca il sorgere del relativismo e dell’indifferentismo religioso di oggi.
Trattò lucidamente del legame intrinseco tra coscienza e verità, e sostenne che la dignità della coscienza esige che non vi siano cedimenti all’arbitrarietà e al relativismo.
Ebbe la capacità di operare una sintesi eccezionale tra fede e ragione. San Giovanni Paolo II ricordò che Newman era nato in un’epoca segnata da un lato dalla minaccia del razionalismo, con il suo «rifiuto sia dell’autorità sia della trascendenza», e dall’altro dal pericolo del fideismo, con la sua incapacità di affrontare le sfide della storia e il suo cieco affidamento all’autorità. Fede e ragione fu la via di Newman: la seconda illuminata dalla prima attraverso la pratica della preghiera e la virtù dell’umiltà. «Fu la contemplazione appassionata della verità a condurlo a una accettazione liberatoria dell’autorità le cui radici sono in Cristo, e a un senso del soprannaturale che apre la mente e il cuore umani».
Lucido studioso, fu, alla scuola di san Filippo Neri, altrettanto lucido pastore, impegnato nella promozione del laicato, convinto della necessità di laici istruiti nelle verità di fede e di morale, capaci di rendere ragione della religione cattolica, di testimoniare Gesù Cristo nel mondo: «Voglio un laicato – scriveva – non arrogante, non precipitoso nei discorsi, non polemico, ma uomini che conoscono la propria religione, che in essa entrino, che sappiano bene che cosa credono e cosa non credono, che conoscano il proprio credo così bene da dare conto di esso, che conoscano così bene la storia da poterlo difendere».

+ Edoardo, Vescovo

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6 giugno 2019

“Fede è fare affidamento sulle parole di un Altro”, sapendo che “il cielo è un traguardo che esige il nostro amore più alto e i nostri sforzi più tenaci” si legge nei Sermoni anglicani del beato John Henry Newman, recentemente pubblicati dalla Casa Editrice Jaca Book. Le omelie (da cui traggo qualche spunto di riflessione), furono pronunciate tra il 1825 e il 1843, prima della conversione al Cattolicesimo, e testimoniano la continua tensione di Newman verso la verità. Tutto il cammino di Newman – dalla conversione dei quindici anni, alla attenzione dedicata ai Padri della Chiesa, alla partecipazione al Movimento di Oxford, all’ingresso nella Chiesa cattolica – testimonia che la via della coscienza non è chiusura nel proprio “Io”, ma apertura, conversione, obbedienza a Colui che è l’amore e la verità: tra coscienza e verità c’è un legame intrinseco.

Sulla fede. “Fede è fare affidamento nelle parole di un Altro”, o, come si legge in un’altra omelia, è “mettere da parte il proprio io per vivere sulle parole di Colui che parla nei Vangeli”. Ne consegue che “la religione deve essere realizzata in atti particolari al fine di poter continuare ad essere viva”.

Una religione “fai da te”. Il relativismo teologico conduce ad adorare “un mero nome astratto, oppure una vaga creazione della mente al posto del Figlio Semprevivo, insegnando una religione del cuore senza ortodossia di dottrina”. E’ un grande pericolo anche “una filosofia spregiudicata e presuntuosa disseminata sopra la nostra fede, come una precisa volontà di estrarre il nostro Credo, ognuno per proprio conto, come meglio può, dalle fonti profonde della verità”.

Rapporto Chiesa – realtà mondana. “La fede non si sente a proprio agio a portare il linguaggio del mondo nel suo sacro ovile, o a mettere le gelosie del mondo nel suo sistema di governo divino, a pretendere diritti, ad adulare i molti, o a corteggiare i potenti. Qual è il più grande desiderio della fede, il suo massimo godimento? Un santo che muore vi risponderà”: la testimonianza del martire rimane la prova provata della fede del cristiano e l’obbedienza la virtù per eccellenza dell’uomo di fede.

Il pericolo della ricchezza. Newman mette in guardia i fedeli dal rischio di cadere nella trappola di confidare eccessivamente nella “sicurezza temporale alla quale le ricchezze conducono” e chiarisce che “ogniqualvolta compiamo le nostre azioni riferendoci a un oggetto di questo mondo, quand’anche sia il più puro, siamo esposti alla tentazione di fissare i nostri cuori allo scopo di ottenerlo”. Si tratta di un impulso “che ci proietta fuori dalla serenità e stabilità della fede, facendo convergere i nostri pensieri su qualcosa che è privo di ciò che è infinitamente alto ed eterno”. E in effetti “una vita dedicata al far quattrini è una vita piena di preoccupazioni” vissuta nell’ansia di perdere quelle ricchezze che con tanta fatica si è cercato di accumulare.

Confessione e pentimento. “La condotta più decorosa di un peccatore coscienzioso è una resa incondizionata di se stesso a Dio”, in quanto “tenendo presente i diritti del Benefattore che egli ha offeso e vergognosamente colpito e il senso della propria ingratitudine, egli deve arrendersi al suo legittimo Sovrano”.

La vera libertà. Non è la libertà dalla legge. Consiste, invece, nella libertà della Legge e dei precetti divini. Il cristiano deve dunque avere un altro metro di giudizio e assecondare un altro criterio d’azione che risponde a una logica inversa e opposta ai canoni del pensiero mainstream e che valuta addirittura quale “disgrazia capitata a un peccatore quella libertà di pensiero e azione di cui il mondo si vanta come del massimo bene”.

+ Edoardo, Vescovo

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20 giugno 2019

Concluse le celebrazioni della Pasqua nella solennità di Pentecoste, tra la solennità della SS. Trinità e quella del Cuore SS. di Gesù la Liturgia celebra la solennità del Corpus Domini, un tempo vissuta con pubbliche, imponenti manifestazioni. E’ occasione di riflettere sul mistero eucaristico. Ci può aiutare il testo della catechesi del S. Padre Francesco che già ho proposto nel corso di quest’anno offrendo la sintesi delle catechesi del Papa sulla S. Messa.

+ Edoardo, Vescovo

«La Messa è il memoriale del Mistero pasquale di Cristo. Ci rende partecipi della sua vittoria sul peccato e la morte, e dà significato pieno alla nostra vita. Per questo, per comprendere il valore della Messa dobbiamo innanzitutto capire il significato biblico del memoriale. Esso non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma li rende in certo modo presenti e attuali. La Messa è il memoriale della Pasqua di Gesù. Non è soltanto un ricordo: no, è di più: è fare presente quello che è accaduto 20 secoli fa.
L’Eucaristia ci porta al vertice dell’azione di salvezza di Dio: il Signore Gesù, facendosi pane spezzato per noi, riversa su di noi tutta la sua misericordia e il suo amore, come ha fatto sulla croce, così da rinnovar il nostro cuore, la ns esistenza. Partecipare alla Messa, in particolare alla domenica, significa entrare nella vittoria del Risorto, essere illuminati dalla sua luce, riscaldati dal suo calore.
Attraverso la celebrazione eucaristica lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita divina che è capace di trasfigurare tutto il nostro essere mortale. Nella Messa si fa Pasqua, stiamo con Gesù, morto e risorto. Nella Messa ci uniamo a Lui. Anzi, Cristo vive in noi e noi viviamo in Lui. Nell’Eucaristia Egli vuole comunicarci il suo amore pasquale, vittorioso. Se lo riceviamo con fede, anche noi possiamo amare veramente Dio e il prossimo, possiamo amare come Lui ha amato noi, dando la vita. Solo se sperimentiamo questo potere di Cristo, il potere del suo amore, siamo veramente liberi di donarci senza paura. Questo è la Messa: entrare in questa passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù; quando andiamo a Messa è come se andassimo al calvario. La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario».
«La Preghiera eucaristica, che qualifica la celebrazione della Messa e ne costituisce il momento centrale, ordinato alla santa Comunione, corrisponde a quanto Gesù stesso fece, a tavola con gli Apostoli nell’Ultima Cena, allorché “rese grazie” sul pane e poi sul calice del vino: il suo ringraziamento rivive in ogni nostra Eucaristia, associandoci al suo sacrificio di salvezza. In questa solenne Preghiera la Chiesa esprime ciò che essa compie quando celebra l’Eucaristia e il motivo per cui la celebra: fare comunione con Cristo realmente presente nel pane e nel vino consacrati.
Vi è poi l’invocazione dello Spirito affinché con la sua potenza consacri il pane e il vino. L’azione dello Spirito Santo e l’efficacia delle stesse parole di Cristo proferite dal sacerdote, rendono realmente presente, sotto le specie del pane e del vino, il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte. Gesù in questo è stato chiarissimo: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. È Gesù stesso che ha detto questo. Noi non dobbiamo fare pensieri strani… È il corpo di Gesù; è finita lì! La fede ci viene in aiuto, e crediamo».
«La celebrazione della Messa è ordinata alla Comunione. Dopo aver spezzato il Pane consacrato, cioè il corpo di Gesù, il sacerdote lo mostra ai fedeli, invitandoli a partecipare al convito eucaristico: “Beati gli invitati alla Cena del Signore: ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Noi volgiamo lo sguardo all’Agnello di Dio e lo invochiamo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato”.
Se siamo noi a muoverci in processione per fare la Comunione, in realtà è Cristo che ci viene incontro per assimilarci a sé.
Secondo la prassi ecclesiale, il fedele si accosta normalmente all’Eucaristia in forma processionale, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza Episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce.
Dopo la Comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa. Allungare un po’ quel momento di silenzio, parlando con Gesù nel cuore ci aiuta tanto, come pure cantare un salmo o un inno di lode che ci aiuti a essere con il Signore».

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4 luglio 2019

Vede la luce, in occasione della festa di san Savino, vescovo e martire, una nuova pubblicazione sul S. Patrono di Ivrea. Non posso che rallegrarmene. Lo studio accurato condotto dall’Autore – l’ing. Aluffi, che è vivo nel nostro ricordo e che ora, lassù, san Savino lo ha personalmente incontrato – mi esime dal dire, anche solo brevemente, qualcosa della vita e del culto del nostro santo.
Mi limito ad accennare a ciò che, ogni anno, mi colpisce: la parola di Gesù che risuona nella Liturgia della solennità: «Non sono venuto a portare la pace, ma una spada»: non la tranquillità dell’inerzia, ma il dinamismo di una lotta, poiché è davvero una lotta vivere nel mondo secondo schemi che non sono quelli del mondo; è una lotta vincere la “mondanità”, lo spirito del mondo, che insorge nel discepolo di Cristo come in ogni altro uomo; è una lotta testimoniare che la felicità, la realizzazione vera della propria vita, a cui l’essere umano aspira nel più profondo di sé, consiste nel vivere seguendo Uno che propone di portare la Sua croce e che dice: «Chi perde la sua vita per causa mia la trova»… «Nel mondo, ma non del mondo»: sta qui la ragione della lotta, e quando un cristiano elude uno dei due elementi di questo binomio – la presenza responsabile nel mondo e la fedeltà alla propria identità – diventa contro-testimonianza: è «indegno di me», dice il Signore.
San Savino è ricordato, a diciassette secoli dalla sua morte, perché è uno di coloro che, nell’arco di duemila anni di cristianesimo, ci hanno creduto fino in fondo, come ci credono oggi i tanti cristiani che in vari luoghi subiscono la persecuzione per non rinunciare a Gesù Cristo e non rifiutare il Suo Vangelo: «Ci sono più cristiani perseguitati oggi che nei primi secoli – affermò Papa Francesco –… Cristiani uccisi dai persecutori, cristiani costretti a fuggire dalle persecuzioni. Anche cristiani cacciati via in modo elegante, con i guanti bianchi…».
Questo sangue versato, queste sofferenze ricorrenti, non sono incidenti di percorso, ma conseguenza del mantener fede all’impegno battesimale: coraggio della testimonianza che è, evangelicamente, “sì-sì, no-no”; coraggio di metter in gioco la propria vita pur di non perdere la vera realizzazione di essa.
Il tempo in cui Savino visse fu detto “aera martyrum”, l’epoca dei martiri, per l’ultimo tentativo da parte del potere di eliminare, nel mondo antico, chi era «nel mondo ma non del mondo», i cristiani che – si legge nella Lettera a Diogneto, della seconda metà del III secolo, contemporanea quindi di san Savino – «non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per la foggia dei loro vestiti … ma si propongono una forma di vita che desta meraviglia. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi… Rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima dimora nel corpo, ma non proviene da esso; anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo».
Il tempo in cui Savino visse e morì per la sua fedeltà a Cristo è quello che la storiografia presenta come “la crisi del III secolo”: dopo anni di prosperità e di ricchezza, già sul finire del II secolo si manifestarono simultaneamente nell’Impero romano situazioni assai problematiche in diversi campi, cambiamenti nelle istituzioni, nella società, nella vita economica e nel modo di pensare, nella concezione della vita: cambiamenti così profondi che in quella svolta epocale gli storici vedono lo spartiacque fra il mondo classico e l’età che stava sorgendo.
Ci sono elementi che, pur nella ovvia diversità, richiamano la situazione attuale per la quale – e non solo sotto l’aspetto economico – si parla di “crisi”.
L’indispensabile speranza in un’alba nuova, che sempre dobbiamo alimentare, comporta la volontà di un esame onesto, il giudizio, la valutazione a cui il termine “crisi” rimanda nel suo significato originale: valutazione delle cause della situazione affinché la ricerca delle soluzioni non sia illusoria. Occorre domandarsi dove affonda le radici la crisi attuale che investe l’uomo in tutte le sue dimensioni, ben oltre l’ambito strettamente economico; domandarsi se essa è effetto della mancata realizzazione di idee, di impostazioni, programmi, o è proprio l’esito di esse… Domande a cui non possiamo sottrarci, tutti, in un confronto sincero, poiché il pericolo è quello di applicare come terapie magari le cause che hanno determinato – o contribuito a determinare – certi esisti che ci affliggono: edonismo, mercificazione di tutto, affanno di procurarsi sempre più beni, caduta di ideali e di tanti valori, cedimento ad un insano relativismo che rifiuta le categorie di vero-falso, di male-bene, e diffonde una cultura in cui sembra proibito porre le grandi domande su Dio, sul senso della vita, su chi è la persona…

+ Edoardo, Vescovo

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1 agosto 2019

“Io non c’ero qui, dieci anni fa, a fare festa con voi a Papa Benedetto che visitava Romano Canavese – ho detto al termine della S. Messa presieduta dal cardinal Tarcisio Bertone – ma la vostra festa di oggi e la commozione che leggo negli occhi di tanti, mi fa ricuperare quel momento che non mi è stato dato di vivere con voi, e lo faccio oggi in modo speciale, nel giorno in cui, sette anni fa, Papa Benedetto mi nominava vescovo e mi inviava a questa Diocesi”.
Mi sono preparato a rivivere quel memorabile avvenimento rileggendo il discorso che il Santo Padre fece all’Angelus, sul sagrato della chiesa Parrocchiale, e a tutti i diocesani, non solo ai Romanesi, ne ripropongo l’essenziale, pienamente convinto che è su questa strada che occorre camminare:
“I valori fondamentali della famiglia e del rispetto della vita umana, la sensibilità per la giustizia sociale, la capacità di affrontare la fatica e il sacrificio, il forte legame con la fede cristiana attraverso la vita parrocchiale e specialmente la partecipazione alla Santa Messa, sono stati lungo i secoli la vostra vera forza. Saranno questi stessi valori a permettere alle generazioni di oggi di costruire con speranza il proprio futuro, dando vita a una società veramente solidale e fraterna, dove tutti i vari ambiti, le istituzioni e l’economia siano permeati di spirito evangelico. Cari amici, non scoraggiatevi! In modo speciale mi rivolgo ai giovani, ai quali occorre pensare in prospettiva educativa. Qui, come dappertutto, bisogna domandarsi, cari giovani, quale tipo di cultura vi viene proposta; quali esempi e modelli vi vengono raccomandati, e valutare se siano tali da incoraggiarvi a seguire le vie del Vangelo e della libertà autentica. La gioventù è piena di risorse, ma va aiutata a vincere la tentazione di vie facili e illusorie, per trovare la strada della vita vera e piena”.

+ Edoardo, Vescovo

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9 settembre 2019

Desidero ricordare una grande donna del nostro popolo: una donna cristiana, testimone del Signore della vita: Paola Marozzi Bonzi che a 76 anni chiudeva la sua esistenza terrena il 9 agosto scorso, festa di un’altra grande donna, s. Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein. 

Paola Bonzi amava ripetere che la sua luce – lei che aveva perduto la vista a vent’anni, da poco madre della sua primogenita – era «ridare il sorriso alle mamme». La sua missione: la felicità delle donne, soprattutto quelle che all’inizio della gravidanza, per vari motivi, erano spaventate dal dire “sì” alla loro creatura.

Nel 1984, dopo l’entrata in vigore in Italia nel 1978 della legge sulla interruzione volontaria della gravidanza – anni difficili, in cui la presenza dei volontari era mal tollerata, ma nessuna difficoltà fermava Paola Bonzi – aveva fondato a Milano nella clinica Mangiagalli il primo CAV – Centro di aiuto alla vita – con sede in un Ospedale.

Lo ha diretto fino al termine della sua vita; pochi giorni prima scriveva: «Fiocchi azzurri, fiocchi rosa. Sono la nostra gioia e il motivo per cui ci impegniamo». E indicava il numero di bambini salvati dall’aborto nel suo CAV dal 1984 ad oggi, grazie a un “sì” coraggioso delle madri, sostenute dalla vicinanza dei volontari: 22.703: quasi il numero degli abitanti di Ivrea…

«Una donna coraggiosa – ha scritto di lei la Presidente del Movimento per la Vita – garbata, intraprendente, dolce, tenace, appassionata e sempre pronta ad essere lei stessa grembo per quelle mamme tentate dall’aborto per una gravidanza difficile o inattesa». Ripeteva sempre che i bambini nascono grazie alle loro mamme, se queste sono aiutate in un momento di smarrimento, perché è nel cuore della donna che risiede il sì alla vita. Un’intera esistenza, vissuta nell’ascolto quotidiano di donne e future mamme in difficoltà; un servizio portato avanti in prima persona, con grande determinazione e infinito amore. Trentaquattro anni di impegno senza mai abbattersi di fronte agli ostacoli, spesso enormi. E ha fatto tutto questo avendo sempre chiaro l’obiettivo: accogliere e custodire la Vita nascente come il più bello e prezioso dei doni di Dio: Donum vitae, il Dono della vita, come insegnava s. Giovanni Paolo II che spesso la accolse e la sostenne.

Ancora il 29 luglio scorso Paola Bonzi scriveva: «L’avventura è stata meravigliosa e non può finire. La Vita è Amore. Restiamo insieme, costruendo così il Futuro. Non ho mai conosciuto una mamma che si sia pentita di non aver abortito ».

E’ stata una grande donna di cui tutta l’Italia dovrebbe essere fiera, mentre capita di sentir chiamare “grandi italiane” altre che, riguardo alla vita nascente (e non solo ad essa) sono espressione di un “pensiero”, propalato da potenti organizzazioni internazionali, diventato oggi – lo afferma anche Papa Francesco – una dittatura nella quale non c’è posto per coloro che Paola Bonzi con amore ha servito: i più piccoli e indifesi a cui è negata l’accoglienza; decine di milioni ogni anno nel mondo.

Un laico che si dichiara non credente scrisse: «Le poche esperienze di santità laicale, come quella di Paola Bonzi, le migliaia di bambini salvati e di madri salvate dalla decisione irriflessa per l’aborto attraverso la cura affettiva e la conversazione fraterna, dovrebbero diventare luce per tutti, invece che essere trascurate e umiliate…».

† Edoardo. vescovo

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26 settembre 2019

Ho partecipato anche quest’anno, a Chivasso, alla Festa patronale del Beato Angelo che – come quella di San Savino a Ivrea – non è la Festa di una singola Comunità parrocchiale, ma di una intera Città, con le sue Istituzioni religiose, civili e culturali; di tutta la Città, pur nella evidenza del fatto che non tutti oggi si riconoscono cristiani e si dichiarano aderenti alla fede che ha plasmato il volto e la vita del nostro popolo. 

Negli anni scorsi ho cercato di presentare il Beato Angelo guardando alla sua vita, al suo pensiero, al suo insegnamento affidato, in particolare, alle pagine preziose della sua “Summa” che Lutero mise sul rogo: ne emerge un cristiano che dalla fede vissuta e dalle sue scelte di vita ha ricevuto una fisionomia che non risulta sbiadita per lo scorrere dei secoli; che ha molto, anzi, da dire anche oggi, nel nostro tempo, in una situazione di incertezze e confusioni, in cui la fede cristiana e la stessa ragione umana sembrano perdere terreno.

Due anni fa ho ricordato ai Chivassesi quanto il S. Padre scriveva ai partecipanti ad una Manifestazione culturale che sempre si svolge a fine agosto, proprio mentre Chivasso celebra la sua Festa patronale: «Uno dei limiti delle società attuali è di avere poca memoria, e questo ha delle conseguenze gravi: si diventa preda dei capricci e delle voglie del momento, schiavi di falsi miti che promettono la luna, ma ci lasciano delusi e tristi, alla ricerca spasmodica di qualcosa che riempia il vuoto del cuore» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 20.08.2017). E l’anno scorso, a 50 anni dal Sessantotto, ho accennato – ancora citando il S. Padre – alla «svolta cruciale avvenuta nella società, i cui effetti – dice il Papa – non si sono esauriti a cinquant’anni di distanzaLa rottura con il passato divenne l’imperativo categorico di una generazione che riponeva le proprie speranze in una rivoluzione delle strutture capace di assicurare maggiore autenticità di vita. Tanti credenti cedettero al fascino di tale prospettiva e fecero della fede un moralismo che, dando per scontata la Grazia, si affidava agli sforzi di realizzazione pratica di un mondo migliore. […] Oggi un senso di paura prevale sulla fiducia nel futuro. Nessuno sforzo, nessuna rivoluzione può soddisfare il cuore dell’uomo. Solo Dio, che ci ha fatti con un desiderio infinito, lo può riempire della sua presenza infinita; per questo si è fatto uomo: affinché gli uomini possano incontrare Colui che salva e compie il desiderio di giorni felici. La natura del cristianesimo consiste nel riconoscere la presenza di Gesù e seguirlo» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).

Quest’anno ho preso spunto da quanto Papa Francesco ha detto commentando un verso stupendo – «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» – di una poesia dedicata da san Giovanni Paolo II a colei che ricevette il nome di Veronica: la vera Icona; la donna che, facendosi largo tra la folla per asciugare il volto di Gesù sulla via della croce, riceve in dono il volto di Cristo e il proprio nome.

«Per affermare il nostro volto unico e irripetibile – scrive il Santo Padre – abbiamo bisogno di guardare a Gesù Cristo, mentre tanti nostri contemporanei cadono sotto i colpi delle prove della vita, e si trovano soli e abbandonati… L’uomo di oggi vive spesso nell’insicurezza, camminando come a tentoni, estraneo a sé stesso; sembra non avere più consistenza, tanto è vero che facilmente si lascia afferrare dalla paura. Per ritrovare se stesso e la speranza, per guardare tutto con occhi nuovi, occorre fissare lo sguardo sul volto di Gesù e acquistare familiarità con Lui. In un’epoca dove le persone sono spesso senza volto, figure anonime perché non hanno nessuno su cui posare gli occhi, la poesia dei San Giovanni Paolo II ci ricorda che noi esistiamo in quanto siamo in relazione. È questo che rende il cristiano una presenza nel mondo diversa da tutte le altre, perché porta l’annuncio di cui più hanno sete – senza saperlo – gli uomini e le donne del nostro tempo. Saremo “originali” se il nostro volto sarà lo specchio del volto di Cristo risorto. La Sua Presenza tra noi è il miracolo dei miracoli. Questa è l’origine della gioia profonda che niente e nessuno ci può togliere: il nostro nome è scritto nei cieli, e non per i nostri meriti, ma per un dono che ciascuno di noi ha ricevuto con il Battesimo. Un dono che siamo chiamati a condividere con tutti, nessuno escluso. Questo significa essere discepoli missionari» (cfr. Messaggio al Meeting di Rimini, 19.08.2018).

Per conservare la Città – ho detto ai Chivassesi – e con essa la nostra civiltà, il patrimonio di valori faticosamente conquistati, non basta lamentare il pericolo – che tutta l’Europa sta correndo – di perdere ciò che siamo. Occorre agire, convinti che la soluzione vera – e urgente – è ricordare il nostro nome e far sì che esso rinasca da ciò che fissiamo, dal Signore Gesù, noi che per grazia siamo cristiani: a Chivasso, nel Canavese, in Italia e in questa Europa che non è riducibile a Bruxelles e alle sue Istituzioni, ma che è costituita dai Popoli e dalle Nazioni, dagli uomini e dalle donne dell’Europa, con la loro storia, la loro vita ed i valori che l’hanno caratterizzata!

† Edoardo, vescovo

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3 ottobre 2019

Mese di Ottobre, mese missionario, non solo quest’anno. Ho letto un interessante articolo di Sandro Magister che commenta sull’Espresso del 23 settembre scorso ciò che affermano i fautori dei preti sposati motivando la richiesta con la scarsità di preti celibi in regioni dove alle piccole comunità disperse bisogna assicurare – dicono – che si offra a tutti la celebrazione della Messa a cadenza regolare, e non soltanto rare volte all’anno.  

«Curiosamente – scrive il giornalista – gli stessi che si mostrano così generosi nel voler elargire l’eucaristia sono anche i più avari nel convertire e amministrare il battesimo, evidentemente da loro equiparato al “proselitismo”: “Non ho mai battezzato un indio, e neppure lo farò in futuro”, ha detto il vescovo Erwin Kräutler.

La contraddizione maggiore, però, è con due millenni di storia della Chiesa, che hanno visto innumerevoli casi di scarsità di preti celibi per comunità disperse, senza però che nessuno derivasse da ciò – con ragionamento puramente funzionale, organizzativo – l’obbligo di reclutare come celebranti anche uomini sposati, i cosiddetti “viri probati”. Non solo. La storia insegna che la scarsità di preti celibi non necessariamente si risolve in un danno per la “cura d’anime”. Anzi, in alcuni casi addirittura coincide con una fioritura della vita cristiana. È stato così, ad esempio, nella Cina del XVII secolo. Ne ha dato conto una fonte insospettabile, “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma, in un dotto articolo di tre anni fa del sinologo gesuita Nicolas Standaert, docente all’Università Cattolica di Lovanio.

Nel XVII secolo in Cina i cristiani erano pochi e dispersi. Scrive Standaert: “Quando Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610, dopo trent’anni di missione, c’erano circa 2.500 cristiani cinesi. Nel 1665 i cristiani cinesi erano diventati probabilmente circa 80.000, e intorno al 1700 erano circa 200.000″.

E pochissimi erano anche i sacerdoti: “Alla morte di Matteo Ricci, c’erano soltanto 16 gesuiti in tutta la Cina: otto fratelli cinesi e otto padri europei. Con l’arrivo dei francescani e dei domenicani, intorno al 1630, e con un lieve incremento dei gesuiti nello stesso periodo, il numero dei missionari stranieri arrivò a più di 30, e rimase costante tra i 30 e i 40 nell’arco dei successivi trent’anni. In seguito vi fu un incremento, raggiungendo un picco di circa 140 tra il 1701 e il 1705. Ma poi a causa della controversia sui riti il numero dei missionari si ridusse di circa la metà”.

Di conseguenza la gran parte dei cristiani cinesi incontravano il sacerdote non più di “una o due volte l’anno”. E nei pochi giorni in cui durava la visita, il sacerdote “conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei catecumeni. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia, predicava, battezzava”.

Poi il sacerdote per molti mesi spariva. Eppure le comunità reggevano. Anzi, conclude Standaert: “Si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di pratica cristiana”. Senza elucubrazione alcuna sulla necessità di ordinare uomini sposati».

Vorrei ricordare un missionario della nostra terra, la cui memoria, forse, si è sbiadita: il Beato Antonio Rubino, nato a Strambino ed entrato giovane a Torino nella Compagnia di Gesù. Dopo aver proseguito gli studi ad Arona e a Milano, nel 1612 fu inviato in missione in India, a Goa. Qui insegnò teologia e si dedicò alla predicazione al popolo facendosi amare da tutti.

Nel 1639 ricevette l’ordine di partire per la colonia portoghese di Macao e di qui in Giappone. Grandi difficoltà fecero tardare la partenza: solo nell’agosto del 1642 insieme a quattro compagni riuscì a imbarcarsi per l’isola giapponese di Sodsuma. Ma giunti a Nagasaki furono arrestati, messi in prigione e barbaramente torturati. Caricati poi su giumenti, con la museruola alla bocca ed una scritta sulla schiena, furono portati al luogo del supplizio, appesi capovolti ad un palo, sepolti a metà in una fossa, e lasciati morire. Era il 22marzo 1643. Diede la vita per l’annuncio del Vangelo poiché il Vangelo era diventato la sua vita.

† Edoardo, vescovo

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24 ottobre 2019

La diocesi di Biella celebrerà, il prossimo anno, il V Centenario dell’Incoronazione della Vergine, Regina del Monte di Oropa. Vi parteciperemo anche noi di Ivrea che ogni anno saliamo al santuario della Vergine Bruna con il pellegrinaggio tra i più numerosi di quelli che Oropa annualmente accoglie. Qui, in diocesi, il 27 agosto scorso, a Prascundù, abbiamo ricordato in festa il IV Centenario dell’Apparizione della Vergine, venuta a portare conforto ad un povero ragazzo, Giovannino. Continuando il gesto che i Vescovi eporediesi hanno compiuto lungo i secoli ponendo una Corona sul capo della Tuttasanta Madre di Dio, abbiamo rinnovato l’Incoronazione della venerata statua di Maria.

L’Incoronazione della Vergine ha il suo significato in relazione alla Incoronazione di Gesù Cristo, Re dell’universo. Partecipe come nessun altro di tutto il Mistero di Cristo, Maria partecipa anche della gloria di Cristo risorto che siede alla destra del Padre ed è salutato dalla Chiesa Vincitore della morte e del peccato, Re e Signore di tutto ciò che esiste.

Nella festa della Assunzione di Maria al Cielo in tutta la sua persona, corpo e anima, la Chiesa canta: «Oggi Maria è salita nei cieli. Rallegratevi! Con Cristo regna per sempre».

Queste parole ci danno il senso vero della vita. C’è in esse, innanzitutto, il richiamo al «Cielo» che è la destinazione della nostra vita oltre la morte. Ci crediamo? Non solo vagamente, ma con la certezza che ci insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde. E’ chiamata “cielo” questa comunione di vita e di amore con la SS. Trinità, con la Vergine Maria, gli Angeli e tutti i Santi. Gesù Cristo ci ha “aperto” il cielo con la sua morte e risurrezione».

«Maria con Cristo regna per sempre». Queste parole ci svelano anche l’impostazione che già ora, sulla terra, dobbiamo dare alla nostra vita per entrare, dopo la morte, nella piena felicità: già ora si tratta di regnare con Cristo, e, questo regnare si esprime nei giorni terreni nel condividere la Sua Croce, la Sua corona di spine, il Suo inginocchiarsi a lavare i piedi: regnare è servire, donarsi, conformarsi a Cristo, esercitando il “sacerdozio regale” che tutti abbiamo ricevuto nel S. Battesimo e che da tutti quindi deve essere esercitato nei diversi ambiti dell’esistenza, nella vita anche sociale e politica alla quale siamo chiamati a partecipare alla luce di una chiara ispirazione cristiana: «Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell’universo – insegna san Giovanni Paolo II – i fedeli vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato, e poi mediante il dono di sé  per servire Gesù stesso, nella carità e nella giustizia».

Anche a questo riguardo mi sia permessa una domanda: quella posta in una sua catechesi del ’67 dal grande Pontefice san Paolo VI, il quale, dopo aver presentato, alla luce del Concilio Vaticano II, la natura e l’esercizio del sacerdozio regale dei battezzati, diceva: «Dobbiamo chiedere a noi stessi se la coscienza del carattere sacro della nostra vita, compaginata a quella di Cristo, sia davvero in noi sveglia ed operante; se essa ci aiuti a ben giudicare il bene e il male morale; e se la doverosa premura di distinguere il sacro dal profano, tanto nel campo del sapere come in quello dell’operare, non ci faccia spesso dimenticare che siamo tutti rivestiti d’un carattere sacerdotale, e non ci porti a dissacrare la nostra mentalità, il nostro abito, la nostra attività; vi è una tendenza a far scomparire il nome di cattolico, a tutto laicizzare e desacralizzare. Sarebbe tale tendenza conforme allo spirito del Concilio? avrebbe essa la virtù di animare quel rinnovamento che il Concilio intende promuovere? Fatte le debite distinzioni, a Noi non sembra. E a voi, diletti Figli, che cosa sembra?»

† Edoardo, vescovo

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14 novembre 2019

Desidero riprendere alcune domande e le relative risposte dell’intervista a tutto campo fatta da Aldo Cazzullo, per il Corriere della sera, al card. Camillo Ruini, Presidente della Conferenza dei Vescovi Italiani per tanti anni, e cruciali nella vita della società… Si è fatto molto clamore intorno a questa intervista; giova, invece, riflettere seriamente poiché il Cardinale con chiarezza ed equilibrio invidiabile – se ne trova poco oggi da ogni parte – risponde a domande come queste:

«Cosa si può fare per combattere il calo delle vocazioni? … E anche le chiese, spesso disertate dai fedeli?»

«A tutti questi interrogativi la risposta decisiva è una sola: noi cristiani, e in particolare noi sacerdoti e religiosi, dobbiamo essere più vicini a Dio nella nostra vita, condurre una vita più santa, e domandare tutto questo a Dio nella preghiera. Senza stancarci».

«Vede un declino dell’autorevolezza della Chiesa italiana?»

«Lo vedo, purtroppo. Anche se non dobbiamo esagerare, e tanto meno disperare. Per recuperare autorevolezza dobbiamo esprimerci con chiarezza, coraggio e realismo sui problemi concreti; così la gente può comprendere che il messaggio cristiano la riguarda da vicino».

«Il Papa emerito Ratzinger ha affermato che la crisi dell’Europa è antropologica: l’uomo non sa più chi è. Lei è d’accordo?»

«Sì. Il principale motivo per cui non sappiamo più chi siamo è che non crediamo più di essere fatti a immagine di Dio; la conseguenza è che non abbiamo più la nostra identità, rispetto al resto della natura».

Queste domande e queste risposte hanno ricevuto attenzione scarsa – o sono state ignorate – da parte dei media, rispetto a quelle sul cattolicesimo politico di sinistra, sulla ventilata fondazione di un nuovo partito dei cattolici, sulla valutazione su Salvini e il dialogo con lui.

Alla domanda: «Ha l’impressione che i cattolici nella politica italiana non contino molto?» il cardinale risponde: «Sì, oggi è così. E non per caso. Ma spero che non si tratti di una situazione irreversibile».

“E non per caso”! Qui sta il punto da cui dovremmo partire a riflettere!

Don Martín Lasarte, missionario uruguaiano in Angola, ha partecipato, invitato da Papa Francesco, al Sinodo dell’Amazzonia. «Non ci saranno vocazioni alla vita religiosa e sacerdotale in Amazzonia se non ci sono processi seri e profondi di annuncio ed evangelizzazione nelle comunità cristiane, di fede contagiosa, di testimoni credibili». «In molti luoghi – scriveva Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium” – c’è carenza di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Questo si deve spesso alla mancanza di zelo apostolico contagioso nelle comunità, che non li entusiasma né li affascina».

«È mancato – ha rilevato in riferimento al Sinodo – un più profondo senso di autocritica ecclesiale. Mi riferisco alla scarsa incidenza pastorale di questi ultimi cinquant’anni nelle diverse realtà ecclesiali amazzoniche. Quali sono le cause della sua povertà pastorale e della sua infertilità? A mio avviso, non sono stati sufficientemente toccati i temi dell’ideologizzazione sociale del ministero pastorale e della mancanza di una testimonianza credibile, coerente e splendente di santità dei ministri (fenomeno di tanti abbandoni di vita religiosa e sacerdotale, o di vita ambigua). A mio avviso, i problemi più profondi dell’evangelizzazione non sono stati focalizzati. Quali sono le nuove vie proposte dal Sinodo? Solo nuove strutture e le ordinazioni di “viri probati”. Mi sembra che queste novità siano enormemente povere. A mio modo di vedere, la nuova veste in cui dobbiamo rivestirci con nuovo fervore è un problema di fede: indossare Cristo. Il pericolo è quello  di una Chiesa trasformata in ONG. Si riduce il mistero, la vita e l’azione della Chiesa a varie attività di “advocacy” e di servizio sociale».

“Quali sono le cause?”. Anche qui una domanda. E da essa occorre partire a riflettere.

† Edoardo, vescovo

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5 dicembre 2019

Un nuovo libro di don Giovanni Zaccaria – La Messa spiegata ai ragazzi (e non solo a loro), Ed. Ares – ha il pregio di “raccontare” con un linguaggio semplice la Santa Messa, e di sottolineare lo stretto legame tra la liturgia e la vita personale del cristiano. Traggo da una intervista all’autore qualche spunto di riflessione per il cammino di questo anno pastorale che abbiamo dedicato alla “convocazione”: Eucaristia: convocati alla presenza del Signore.:

«A Messa ci andiamo perché “convocati”: che cosa significa?

Io penso che tutti abbiamo come la sensazione che, quando andiamo a Messa, siamo noi a decidere. Pensiamo: sono io che decido quando vado a Messa, in quale chiesa, con quale sacerdote, con quali amici etc… Questo è anche vero, ma solo in parte. Noi, infatti, cresciamo con l’idea che la vita cristiana sia quello che io faccio per Dio e, siccome io sono buono, allora scelgo di riservare un po’ del mio tempo a Lui. Ebbene, la realtà è esattamente il contrario: tutto quello che di buono facciamo nella nostra vita, è una risposta ad una chiamata di Dio, che viene sempre prima di noi. Ecco perché si dice che alla Messa noi siamo convocati: perché non sono io, ma è Dio che per primo mi chiama. È lo Spirito Santo che mi viene a cercare perché vuole stare con me. Nella Messa è Dio stesso che cambia le regole dello spazio e del tempo, pur di stare con me. È chiaro poi, che a questa convocazione, io posso rispondere “Sì” o “No”, perché Dio non ci toglie mai la libertà, altrimenti non ci sarebbe l’amore. D’altra parte, però, Lui non si stanca mai di chiamarci e di venirci incontro per primo».

«Spiegando il momento dell’Offertorio, lei fa capire una cosa fondamentale: la Messa è un avvenimento che c’entra concretamente e personalmente con la vita di ognuno di noi.

È molto importante, nella Messa, stare attenti a quello che dice il sacerdote quando offre il pane e il vino: “Benedetto sei Tu Signore, Dio dell’Universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Li presentiamo a te perché diventino il Corpo e il Sangue di Cristo”. Questa preghiera significa che non c’è Eucaristia, se non ci sono grano e vite ma, soprattutto, se non c’è il lavoro dell’uomo che trasforma quel grano e quella vite in pane e vino. In altre parole: non c’è Eucaristia se non c’è il lavoro dell’uomo. Attenzione però, non stiamo parlando di un lavoro generico, ma proprio del tuo, personale, lavoro! Che sia fare un letto o progettare un aereo, giocare a calcio o studiare etc… tutta la tua vita, tutto quello che fai, tutto quello che ti esalta e tutto quello che ti deprime, tutta la tua esistenza entra perfettamente in questa preghiera dell’Offertorio. Non solo: attraverso il sacerdote, tutto questo passa dalle tue povere mani, direttamente alle mani di Dio. Come cambia allora la nostra vita! Sapere che tutto quello che fai, tutto quello che vivi, ogni emozione che provi, puoi viverla insieme a Dio, puoi offrirla a Lui e condividerla con Lui… Non c’è più nulla nella vita che resti privo di senso! Capire questo è fondamentale perché ci fa entrare in un’altra dimensione: quando vai a Messa non sei più solo uno spettatore, che assiste ad un evento da fuori, come se fosse ad un teatro o ad un convegno. La Messa è tua, esattamente quanto lo è del sacerdote! Ovviamente ciascuno ha il proprio posto. Ma il solo fatto che tu sia lì presente, che offri la tua esistenza, innestato nel Sacrificio di Cristo, dona alla tua esistenza un valore incommensurabile! Tutta la tua vita acquista un senso totalmente nuovo. Per questo, noi possiamo dire di essere sacerdoti della nostra stessa esistenza».

«È questo il sacerdozio del fedeli di cui si parla nel libro?

Quando dico che il fedele non è un semplice spettatore, trovo giustificazione nel Sacramento del Battesimo. Da cristiani iniziati, cioè battezzati e cresimati, noi siamo innestati in Cristo per sempre, cioè diventiamo membra del Suo stesso Corpo. Nel rito del battesimo questo principio è tradotto con una formula bellissima: mentre si unge il capo del bambino con il Sacro Crisma si dice che questi è assimilato a Cristo “Sacerdote, Re e Profeta”. Queste sono esattamente le stesse tre categorie che si usano per il sacerdozio dei ministri. È chiaro che, in quest’ultimo, si aggiunge una configurazione a Cristo totalmente nuova, per cui la Messa del sacerdote e la Messa del fedele non saranno mai la stessa cosa. Certamente però, anche per il fedele laico, c’è un aspetto di profonda partecipazione al sacrificio eucaristico».

† Edoardo, vescovo