IV centenario della Canonizzazione dei Ss. Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa d’Avila, Isidoro agricoltore

Per riconoscenza verso la Congregazione dell’Oratorio e il suo Fondatore non potevo mancare a Roma alla Messa presieduta dal Santo Padre il 12 marzo scorso in ricordo dei cinque santi che il suo lontano predecessore Gregorio XV aveva canonizzato nello stesso giorno del marzo 1622; e, il giorno dopo, alla celebrazione solenne in cui la Famiglia Oratoriana ha espresso a Padre Filippo la propria gioia per la sua glorificazione, la più alta che la Chiesa conferisca a un suo figlio.

Filippo Neri (1515-1595), Ignazio di Loyola (1491-1556), Francesco Saverio (1506-1552), Teresa d’Avila (1515-1582) – campioni di quella Riforma Cattolica che è stata molto più che una reazione alla Riforma luterana – e con essi il laico Isidoro che in altra epoca (1080-1130) servì Dio lavorando i suoi campi, umile contadino della campagna intorno a Madrid, sono coloro di cui “Pasquino” disse: “Oggi er Papa fa quattro spagnoli e un santo”: mordace ironia del popolo romano…

È bello guardare ai cinque santi cercando di cogliere da una loro parola qualche lineamento del loro volto.

S. Ignazio di Loyola. “Prega come se tutto dipendesse da Dio e lavora come se tutto dipendesse da te”.

Battezzato con il nome di Iñigo – che gli si addiceva perfettamente per il temperamento di fuoco che aveva ricevuto – lo cambiò in Ignazio quando, con la conversione, mise quel fuoco al servizio del Regno di Dio. Si era avviato alla vita del cavaliere, alle Corti di Spagna, tra divertimenti e combattimenti. Nell’assedio di Pamplona una grave ferita alla gamba lo fermò costringendolo ad una lunga convalescenza, durante la quale la lettura della “Vita di Cristo” e della “Legenda Aurea” lo convinse che era Gesù l’unico vero Signore al quale

si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere. Ristabilitosi, andò pellegrino a Gerusalemme; a Barcellona, nell’abbazia di Monserrat fece la confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e con il voto di castità perpetua fece il primo passo verso una vita religiosa. A Manresa, al suo ritorno, condusse, per più di un anno, vita di preghiera e di penitenza. Fu qui che “ricevette una grande illuminazione” sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati. In una grotta dei dintorni, in piena solitudine, prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che, successivamente rielaborate, formarono i celebri “Esercizi Spirituali”. Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato occorreva studiare; a 33 anni iniziò questo impegno, fino ad ottenere, a Parigi, il dottorato in filosofia. Nel 1534 con i primi compagni, tra cui Francesco Xavier, nella cappella di Montmartre fece voto di vivere in povertà e castità; si sarebbero messi a disposizione del Papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla. Ordinato sacerdote, insieme a due compagni andò a Roma; una visione lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù.

S. Filippo Neri. “Bisogna buttarsi in tutto e per tutto nelle mani del Signore. Se Dio vorrà, vi farà lui buoni in quello che vi vorrà adoperare… Chi vuol altro che Cristo non sa quel che vuole, e chi chiede altro che Cristo non sa quel che domanda”.

In obbedienza al Papa rimase a Roma a coordinare le attività della Compagnia e ad occuparsi dei poveri, degli orfani e degli ammalati, fino alla morte.

Fiorentino di nascita e di formazione, arrivò a Roma non ancora ventenne: “È come se una luce venisse accesa nel buio della miseria che annida tra le antiche glorie dell’Urbe” è stato scritto.

Di giorno, viso simpatico e cuore lieto, porta, ben prima di essere prete, il calore di Dio a chi incontra e a chi giace all’Ospedale degli Incurabili; di notte, sul sagrato di una chiesa o nelle catacombe, un’anima di fuoco, immerso in un dialogo intimo con Dio, tanto da ricevere il dono di una speciale effusione di Spirito Santo che gli dilatò anche fisicamente il cuore.

“Appassionato annunciatore della Parola di Dio” disse Papa Francesco nel 500.mo della nascita di Filippo. La paternità spirituale di questo “cesellatore di anime” “traspare da tutto il suo agire, caratterizzato dalla fiducia nelle persone, dal rifuggire dai toni foschi ed accigliati, dallo spirito di festosità e di gioia, dalla convinzione che la grazia non sopprime la natura ma la sana, la irrobustisce e la perfeziona”. “Si accostava alla spicciolata ora a questo, ora a quello e tutti divenivano presto suoi amici”, racconta il suo primo biografo e il Papa commenta: “Amava la spontaneità, rifuggiva dall’artificio, sceglieva i mezzi più divertenti per educare alle virtù cristiane, al tempo stesso proponeva una sana disciplina che implica l’esercizio della volontà per accogliere Cristo nel concreto della propria vita”.

L’Oratorio nasce così, non per un progetto disegnato sulla carta. “Grazie anche all’apostolato di San Filippo – riconosce Papa Francesco – l’impegno per la salvezza delle anime tornava ad essere una priorità nell’azione della Chiesa”. Approdò al sacerdozio a 36 anni, ma l’ordinazione non dovette comportare sostanziali cambiamenti di vita e stile. Col tempo, attorno a lui prese corpo la prima comunità, cellula della futura Congregazione che Gregorio XIII approverà nel 1575.

“Apostolo di Roma” lo proclamarono i Papi: con Pietro e Paolo unico nella numerosa schiera dei santi che vissero e lavorarono nel centro della Cattolicità. “Chi fa bene a Roma – diceva Filippo – fa bene al mondo intero”.

S. Teresa d’Avila. “Dio non smette di occuparsi di me e della mia anima: la desidera indefessamente. Ma viene il demonio con le sue grandi astuzie e, sotto colore di bene, la distacca a poco a poco dalla volontà divina in ben piccole cose, destandole interesse per altre che le fa credere non siano cattive, offuscandole man mano l’intelligenza, raffreddandole la volontà e facendole crescere l’amor proprio, finché, da una cosa all’altra, la va allontanando dal volere di Dio e avvicinando al suo proprio volere. Non c’è da fare altro che riconoscere la nostra indigenza e consacrargli tutta la ns volontà”.

Nella Basilica Vaticana, sotto la statua di questa donna forte e tenace, si legge: “Mater spiritualium”, dove “spirituali” non indica solo alcune anime elevate a particolari stati mistici, ma tutti coloro che si impegnano a vivere la vita cristiana, che è vita “nello Spirito Santo”.

Fu davvero imponente la sua opera riformatrice, convinta com’era che alle terribili lacerazioni della Chiesa non si poteva rispondere se non rinnovando la propria fedeltà a Dio, con una vita che si lascia cambiare dall’amore a Cristo e alla Chiesa, fermamente convinta che solo nella comunione con il

Signore si trovano i doni di grazia per la Chiesa martoriata da corruzioni, infedeltà, e scismi.
La sua vita spirituale fu costante “progresso” nell’adesione a Cristo, fino a diventare “Teresa di Gesù”: «Piaccia a Dio – scriveva – che vi impegniate a crescere”. “Poco mi curo di ciò che si dica o si sappia di me. Ciò che mi interessa è ogni più piccolo progresso che l’anima possa fare”. E dunque: «Nada te turbe, nada te espante. Quien a Dios tiene nada le falta… Solo Dios basta!»: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!».

S. Francesco Saverio.Ti ringrazio, Signore, per la provvidenza di avermi dato un compagno come questo Ignazio, dapprima così poco simpatico”.

Dopo aver peregrinato per terre, mari e isole in Oriente per annunciare Cristo ai pagani, quando ormai si trovava alle porte della Cina, sentì da Dio: “Francesco, figlio mio, cessa la tua lotta e vieni da Me!”: da Francesco Dio non voleva la Cina: voleva Francesco. L’intrepido missionario morì dicendo: “Sì, mio Redentore, prima di ogni altra cosa e sopra tutte le cose, si compiano i Vostri perfettissimi disegni e solo così, Vi sarà data la maggior gloria!”.

Pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono di esse con S. Teresa di Gesù Bambino, Francesco nacque nel castello di Xavier, in Navarra. Nel 1525 si recò all’università di Parigi sognando pingui benefici nella diocesi di Pamplona. L’incontro con Ignazio di Loyola fu provvidenziale: lo trasformò in araldo del Vangelo. Più tardi Ignazio dirà di Francesco: fu “il più duro pezzo di pasta che avessi mai avuto da impastare”. I passi di Ignazio – sopra ricordati – furono anche i suoi fino al 1540, quando fu mandato alle Indie Orientali. A Goa, cominciò il suo apostolato nella colonia portoghese che con la sua vita immorale scandalizzava persino i pagani. Poi estese il suo ministero ai malati, ai prigionieri e agli schiavi. Dopo cinque mesi fu mandato al sud del paese; per due anni passò di villaggio in villaggio, esposto a mille pericoli, fondando chiese e scuole, facendosi a tutti maestro, medico, giudice nelle liti, difensore contro le esazioni dei portoghesi, salutato ovunque quale santo e taumaturgo. Aprì nuovi campi all’apostolato: nella Malacca, nelle Molucche, abitate dai cacciatori di teste, nell’isola di Amboina, presso la Nuova Guinea, fino alle isole del Moro. Sedotto dalle notizie avute sul Giappone e i suoi abitanti partì per andarli ad evangelizzare. Di lì, senza poterla raggiungere, si mise in viaggio per la Cina.

Di Isidoro contadino non abbiamo parole da riportare; se dovessi mettergliene una sulle labbra, sceglierei questa, di Francesco Saverio: “Signore, io ti amo non perché puoi darmi il Paradiso o condannarmi all’Inferno, ma perché sei il mio Dio. Ti amo perché Tu sei Tu”.

La sua vita, così diversa da quella di tre preti santi e di una santa monaca, era santa come la loro. Non aveva fondato né riformato ordini, non aveva costruito monasteri, né aveva lasciato grandi opere dottrinali o mistiche: aveva amato una donna (Maria Toribia, beatificata anch’ella alla fine del ‘600), allevato un figlio e coltivato la terra, pregando e condividendo i suoi averi con i più poveri. Gregorio XV lo innalzò nella gloria dei santi insieme a quei quattro grandi della Riforma Cattolica. Mi ricorda la scelta fatta da S. Giovanni Paolo II quando, sulla gloria degli altari, pose la piccola Bakhita accanto a san Josemaría Escrivá de Balaguer.

Che spettacolo, la santità! Un mio confratello oratoriano, il ven. Raimondo Calcagno, diceva: “È l’unica cosa che ci rende davvero interessanti al mondo”.

Il Cinquecento, che vide spaccarsi la Chiesa e l’Europa e scoppiare il bubbone di disordine morale presente da tempo nella vita di molte membra della Chiesa, assistette al sorgere di così numerosi esempi di santità che si rimane stupiti anche solo a scorrere l’elenco dei più noti tra quelli canonizzati.

Quel secolo vide svilupparsi un’ampia e fervida azione caritativa al servizio dei poveri, degli ammalati, dei giovani, di ogni categoria di bisognosi. I vecchi ordini religiosi con fatica tendono a riformarsi al loro interno: monasteri e conventi adottano una regola riformata; nuovi ordini nascono dal tronco di quelli antichi; le nuove scoperte geografiche lanciano la Chiesa nella evangelizzazione dei popoli. Nel malcostume diffuso, alcuni vescovi si distinguono per capacità e zelo pastorale. E si potrebbe continuare… Il grande impulso dato dal Concilio di Trento (1545-1563) all’azione della Chiesa cattolica per contrastare, da un lato, il luteranesimo e, dall’altro, per riformarsi al suo interno, fu accolto e vissuto da una splendida schiera dei santi, un firmamento di stelle di cui ancora ammiriamo la luce.

† Edoardo Aldo Cerrato, C.O.